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Recensione del ristorante Gold di Milano

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Il pezzo era uscito su Dagospia, ma non lo trovo più. Non lo trovo nemmeno nel sito del Sole. E siccome non lo trovo, devo ripubblicarlo (grazie A. per avermelo mandato), non posso privare il mondo di questo magistrale racconto sul Gold di Dolce & Gabbana. E no, non c’entra nulla il fatto che da quando è aperto quel ristorante ci sono Porsche e Suv posteggiati ovunque sotto casa, e in particolare sui passaggi pedonali, sugli scivoli delle carrozzine, eccetera…

Camilla Baresani per il “Domenicale” de “Il Sole 24 Ore”
In un clima di euforia posticcia alla Doris Day, si nuota in grandi spazi dorati un po’ Trump Tower un po’ quel lussuoso vintage anni 50 in gran voga fra gli antiquari di Brera. I lampadari ricordano i vestiti di Barbarella, fanno pensare a Jane Fonda e Pierre Cardin. Siamo al «Gold» di Milano, il nuovo bar ristorante bistrot degli stilisti Dolce & Gabbana. C’è uno sfavillio da boom economico, da entusiasmo per i destini progressivi del mondo, un desiderio di evocare lusso, divertimenti, jet set.

Sono belle le pareti di pietra, le tapparelle dorate, i pavimenti, i tondi e scomodi divani che sostituiscono le sedie. Come nei ristoranti di lusso americani, si fa una gran fatica a prenotare e trovare posto, ma poi, quando ci vai, inspiegabilmente molti tavoli sono e restano liberi. Al solito il chiasso è impressionante. Non si capisce come questi ristoranti, che sono il risultato di cantieri interminabili, di progetti e riflessioni e intuizioni di fior di architetti, non considerino mai l’importanza dell’insonorizzazione e lascino i clienti preda di rimbombi fastidiosi, costretti a gridare per parlarsi.

I bagni sono bellissimi e verrebbe voglia di passarci la serata. Pareti a specchio con monitor incorporati, marmi con l’acqua che vi scorre sopra, personale discreto che continuamente pulisce.
Nella sala del bistrot anche la superficie del tavolo, senza tovaglia, è uno specchio. Il mio commensale mi dice, simpaticamente: «Ammiro il tuo mento, non hai la pappagorgia». Gli specchi, si sa, sono impietosi: in questo caso poi lo specchio ce l’hai letteralmente sotto il naso, a rivelare dettagli che solitamente si vedono da altre prospettive. I tovaglioli sono molto grandi e belli, ma a fine serata il tavolo provoca un senso di ribrezzo: non riflette più nulla, è solo una composizione opaca di ditate.

Al momento del conto, la cameriera, una bionda slava con un brillantino nel naso, chiede: «Vi è piaciuto il cibo… e tutto quanto?». «Certo», le rispondi. Cosa vuoi dire a una ragazza così gentile? In realtà l’insalata di carciofi, noci e parmigiano è di ordinaria amministrazione, vagamente legnosa: bisognava scartare più foglie. Le linguine al pesto invernale (lattuga anziché basilico) sono un po’ scotte e lasciano un retrogusto d’aglio che resterà sullo stomaco fino all’indomani. Ma soprattutto la cotoletta alla milanese è la più cattiva che abbia mangiato in vita mia, oleosa, inspiegabilmente dolciastra (che aggiungano zucchero alla panatura?), troppo brunita sui bordi, gommosa. Mi ha fatto pensare a quelle che ammanniscono in certi baretti del centro, cucinate dal gestore la sera prima a casa, in qualche paese dell’hinterland, e riscaldate il giorno seguente nel microonde, per i frettolosi pasti degli impiegati. Il vino ha ricarichi significativi: un neutro barbera dell’oltrepò pavese (Castello di Cicognola) costa ben 65 euro. Senza vino, al bistrot si può fare un pasto con 35/40 euro.