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Butt Fix: ci siamo

S. e io ci presentiamo in ospedale puntuali alle 8 del mattino, non mangio e non bevo da molte ore e non vedo l’ora che tutto sia passato. Prima sopresa: in coda davanti a noi ci sono a. e s., che si opera come me in mattinata, nello stesso reparto e con lo stesso chirurgo.

Grazie alle convenzioni della mutua dei giornalisti (che peraltro mi costa parecchi euro al mese) mi posso permettere una camera privata e così l’accettazione ricoveri assomiglia molto a un check-in alberghiero, tanto che solo un barlume di lucidità mi ha impedito di chiedere se ci fosse o meno il collegamento wi-fi.

Verso le 9 l’infermiera viene a chiedermi com’è andata la depilazione e non fidandosi delle mie rassicurazioni vuole controllare: “caspita, la chiamo anche per gli altri nostri pazienti!”. Trovarsi subito così chiappe al vento di fronte a diversi sconosciuti abbatte del tutto quel residuale senso del pudore che mi era rimasto entrando in ospedale. Non ci ero mai stato in vita mia e mi accorgo subito che qui vale tutto.

Dopo una mezz’ora arriva il chirurgo, brillante come al solito: il mio turno sarà prima di mezzogiorno. Da quel momento in poi arrivano una serie di persone, tutte diverse e quasi nessuna italiana, a: misurare la pressione, provare la febbre, chiedere notizie sul pranzo (“ah no, lei non può mangiare”), rifare la camera (ma se sono appena entrato!). Infine arriva un ragazzo molto carino, pieno di tatuaggi e piercing: “ecco la tua preanestesia!”. Mi fa bere del Valium e mi fa un’iniezione, poi mi fa mettere il camice degli operandi, “non lo allacciare dietro così passando in reparto tutti ti vedranno il culo, che non è male”. Tesoro.

Dopo milioni di puntate di ER, Grey’s Anatomy, Dr House eccetera, l’ingresso in una sala operatoria è davvero emozionante: qui però c’è un suora super energica che dirige il traffico (e che traffico, tutto un via-vai di gente in barella) e che mi affida a un’infermiera per il posizionamento della flebo. Purtroppo l’infermiera era molto giovane e: primo buco, un tormento amplificato dai tentativi di rimediare; si arrende e passa a un secondo buco a valle, attacca la flebo, apre il rubinetto e piano piano il braccio si gonfia. OK, iniziamo bene: avrei dovuto leggere l’oroscopo prima di venire.

Arriva l’anestesista che toglie la flebo, la attacca sull’altro braccio, mi mette un tubo che soffia aria calda sulla pancia e mi porta in sala. “Mettiti seduto che facciamo l’epidurale”. Non si avvicina nemmeno con l’ago che sono già quasi svenuto. “Maria vedi che effetto fai agli uomini, appena ti vedono svengono”. Finita la fase goliardica mi sdraiano, mi saltano letteralmente addosso in due per mettermi in posizione (non so voi, ma io non capace di piegare la schiena ad angolo retto in un determinato punto) e procedono: ok fa un po’ male, ma non è un dramma. Ben più drammatica, invece, la sensazione di non sentire più gambe, fianchi e tutto il resto. Mi pento subito della scelta, avrei dovuto fare l’anestesia generale. Sono ancora in tempo per rimandare l’intervento?

Braccio massacrato e svenimento, non c’è due senza tre. E il tre arriva con la frequenza cardiaca. Dopo che mi hanno posizionato, messo in posizione parto, legato, riscaldato ancora, un po’ coccolato (“42 anni, ma se ne dimostri 30; che bella pelle; sei agitato?”), sento un suono che ricorda molto un allarme, mi giro e vedo la macchina che rileva pressione, frequenza e tutti gli altri parametri che lampeggia di rosso. Naturalmente penso subito al peggio e anzi già mi sembra di stare improvvisamente malissimo.
“Ma sei così agitato?”
No, non mi sembra dico e penso io: certo quel 130 di frequenza quando normalmente non supero i 50 mi fa immediatamente agitare un po’. La frequenza diventa 60, poi 55, poi di nuovo 140. Tutti capiscono che qualcosa non funziona, ma nella macchina. Mi staccano tutti i cerotti-elettrodo (anni di cura della pelle rovinati in mezz’ora), li rimettono, tutto ok.

Si comincia, arrivano il mio chirurgo e due più giovani, si posizionano laggiù e iniziano a lavorare; almeno credo, perché io non sento nulla, loro parlano a bassa voce, io ho la ventola del riscaldatore che fa un gran casino e in più continuo a tenere d’occhio il pannello della frequenza, che non si sa mai. E infatti dopo qualche minuto scende sotto i 50: iniezione di non-so-che-cosa, risale subito. L’anestesista tenta di chiacchierare – e chi mi conosce sa della mia simpatia in certe circostanze, così anche lui desiste quasi subito, e dopo qualche minuto il mio chirurgo dice “abbiamo finito, tutto bene”. Un’ora di preparativi, 10 minuti di operazione, più o meno.

Visto che non muovo gambe e non sento nulla dal busto in giù mi trascinano come un sacco di patate da una barella all’altra fino alla mia camera.

Sarà più o meno l’una. Mi sento abbastanza rintronato, non sentire la gambe mi mette agitazione e in generale sono infastidito da tutto, ma non ho male. Nel corso del pomeriggio la sensibilità a gambe e tutto il resto riprende (così mi accorgo di aver erroneamente posizionato le tre borse del ghiaccio che mi hanno portato non sul sedere, ma sui testicoli, che quindi sono congelati: forse è il caso di abbandonare questa tecnica del fai-da-te e far fare alle infermiere), inizio ad avere un po’ di fastidi, ma tutto sopportabile.
E qui inizia il capitolo pipì. Non riesco a farla, ore in bagno senza esito. Alle nove di sera le infermiere sentenziano (in peruviano, ma io capisco): “se non la fai mettiamo un catetere”. Penso tra me: forse questa prospettiva servirà da stimolo, ma niente.

Alle 22:30 chiedo il primo antidolorifico della giornata, mi attaccano una flebo e mi addormento di sasso fino a quando, verso le due di notte, irrompono in camera con un lungo tubo di plastica e – per quanto addormentato – capisco che cosa sta per succedere: “si rilassi, si rilassi”. Certo, rilassati tu con una che ti sta infilando un tubo nel pisello.

Dopo una mezz’ora riesco a fare la pipì anche senza catetere, ma mi brucia da matti: diciamo che sono messo bene da tutti i punti di vista, davanti e dietro. Mi mancano un’otite e un ascesso al dente. Mi addormento, domani andrà meglio?