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Politerapico di Monza, la risonanza in un Autogrill

Il tema era: dove fare la risonanza magnetica (prescritta dall’ortopedico per indagare la tendinite all’ileopsoas che mi sta tenendo fermo da metà ottobre) senza farmi addormentare? Già perché chi soffre di claustrofobia, come me, difficilmente regge mezz’ora immobile dentro quel tubo e con un martello pneumatico che ti gira attorno.
Anni fa ne feci una alla testa e mi ricordo che arrivai in fondo solo grazie al Valium e a tutta l’opera di De André cantata a squarciagola dentro il tubo; però avevo 30 anni e ancora controllavo certe fobie. Adesso non riuscirei nemmeno ad avvicinarmi all’ospedale sapendo di dover affrontare il sarcofago.
Scopro così che esistono anche apparecchi per la risonanza magnetica aperta: una telefonata al San Raffaele (vado sempre a finire lì anche se lo odio perché ho continue conferme del fatto che ci sono i medici migliori) mi conferma che la loro apparecchiatura è dannatamente claustrofobica e ci sono un paio di strutture in Lombardia che hanno le macchine aperte.

Una di queste strutture è il Politerapico di Monza. Sono un claustrofobico felice: prenoto.

La sede del Politerapico di via Borgazzi a Monza non è che si presenti proprio benissimo nemmeno al primo impatto. Non che si debba giudicare un ospedale dai giardini e dai fiori, ma ecco anche entrare in una palazzina così-così, lato strada su una specie di tangenziale nell’hinterland milanese, diciamo che un po’ di magone ti viene. Anche riuscire ad attraversarla a piedi quella strada non è il massimo, soprattutto se zoppichi.

Comunque: ci riesco ed entro. La struttura condivide i locali e forse anche l’attività con una palestra. Sul momento mi sembra una buona cosa, ma lo sarà?

Accettazione e discesa nei locali della Rm (Risonanza magnetica), che si presentano più o meno così: poltroncine anni ottanta, quadri alle pareti con dentro gli orari del bar, altri cartelli appesi con quelle plastichine delle cartellette a buchi, un po’ impolverati. Il bagno è di quelli puliti ma un po’ fatiscenti, che ti lasciano sempre col dubbio: sarà davvero pulito?

Mi chiamano, entro. Mi guardo intorno: mi sembra di vedere uffici mezzi vuoti con pile di vecchi computer e altre cose del genere. Una cantina, ecco che cosa sembra il reparto delle risonanze. La stanza con la mitica apparecchiatura, poi, è anche peggio. Due spogliatoio microscopici (se ti chini, batti la testa, io non mi posso chinare e mi salvo, ma siccome non riesco nemmeno a sedermi togliere i pantaloni diventa un’impresa) con le porte a soffietto, una barella in un angolo, altri oggetti, come dire?, che non sembrano di alta tecnologia diagnostica, sparsi ovunque. Il ragazzo prima di me esce dall’apparecchio, entro io – tipo catena di montaggio. Talmente veloce deve andare la catena che il tecnico – gentilissimo, devo dire – mi mette quasi un po’ di fretta quando si accorge che mi muovo sul lettino come un gatto di marmo e che la semplice operazione di sdraiarmi nella posizione corretta è un’impresa.

Alla fine: ci riesco. E qui arriva una parziale delusione: la macchina è sì aperta, nel senso che non c’è un tubo nel quale entri, ma c’è comunque una specie di lapide che ti si posiziona sopra. Senza voler essere pignolo sulle definizioni di claustrofobia, per me è già una situazione abbastanza a rischio. L’idea, però, di dover ripetere tutta la trafila mi fa arrivare in fondo.

Le gira la testa? Eh, minchia sì mi gira la testa, sono stato mezz’ora immobile e scomodissimo con il magnetone qui che batteva, certo che mi gira la testa. Stia pure qui seduto qualche minuto, dice mentre prepara la macchina per la paziente successiva, e ci manca solo che inizi a picchiettare le dita sugli strumenti per farmi capire che me ne devo andare.

Riesco in qualche modo a rivestirmi, questa volta dando anche la craniata evitata durante lo svestimento, cerco di avere qualche informazione sull’esito, già sapendo che non l’avrei ottenuta e me ne vado. Ops, dallo scantinato al piano terra l’ascensore non funziona, me la faccio tutta a piedi, mezzo gradino per volta, e in tre quarti d’ora comodi sono fuori.

Che cosa mi ricorda, in generale questo posto? Un Autogrill. Quello stile un po’ così, non classificabile, che tolleri sulle tangenziali, ma che non dovrebbe c’entrare nulla con la medicina.

Quando l’ortopedico mi dice che l’esame, uhm, ne ha visti di migliori, capisco che ho fatto un errore. Che evidentemente la tecnologia non è ancora pronta per la risonanza magnetica aperta e che se ce l’ha il Politerapico di Monza e non il Policlinico di Milano, l’Humanitas o il San Raffaele, ecco una ragione ci sarà. Quindi: la prossima volta mi faccio drogare ed entro nel tubo.