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Marmaz vs. ufficio igiene, parte IV (5 anni dopo)

Credevo che la saga delle vaccinazioni internazionali, che ho raccontato con una serie di post nel 2008, si fosse chiusa definitivamente: avevamo giurato che non ci avremmo più messo piede, in quell’ufficio. Invece: abbiamo dimenticato e ci siamo ricascati.

Questa volta le cose iniziano meglio: dopo essere riuscito a trovare i centralini aperti (fanno anche la pausa pranzo, che ti credi?), prenoto. Mi forniscono due codici, “se li segni perché senza questi poi avrebbe problemi allo sportello“. Cerco un tatuatore, per estrema sicurezza, e provvedo.

Questa mattina ci presentiamo alle 8:30, come da appuntamento, e alle 8:45 siamo ancora nella stanza 38 a compilare i soliti moduli: è pazzo? Ha un infarto in corso? È stato punto da un ragno velenoso nelle ultime 24 ore?

Ci chiamano alle 8:50. Io sono già abbastanza innervosito dal clima generale di estrema lentezza, ma cerco di farmi forza. “Allora,” esordisce la ragazza, “come mai volete andare in India?“.

Ma a te che cazzo te ne frega?

No, non le ho risposto così, mi sono trattenuto. Lascio parlare s. che è ancora leggermente più calmo di me. “Dai, raccontatemi il viaggio“. Le raccontiamo il viaggio: le città, i treni notturni, gli aerei. “In aereo? Ma perché prendete dei voli interni?“.

Assale il dubbio di essere in un’agenzia di viaggi, ma andiamo avanti.

Dopo un’analisi delle tappe, il verdetto è drammatico: “Io non farei proprio alcuna vaccinazione. Tanto sarete sempre in hotel a 4 o 5 stelle (ok, s. è tutto fighetto in giacca e cravatta, ma io sono vestito da barbone come sempre) e mangerete sempre in albergo“. Veramente no, ma siamo disposti a tutto pur di uscire da quella stanza.

Arrivano i consigli: “lavatevi le mani“. Mi trattengo.

E poi una lista di medicine: nessun nome commerciale (o di principio attivo) che magari sarebbe stato utile, ma un elenco da giovani marmotte. Qualcosa per la febbre, un antibiotico, cose così.

Avendo deciso di darle una speranza, le chiedo il nome di un buon antibiotico in caso di dissenteria. “Parlatene con il vostro medico curante, che vi conosce meglio“. Nel frattempo alla scrivania accanto un’altra dottoressa nella metà del tempo aveva già consigliato una decina di medicine specifiche e dato una serie di consigli interessanti. Siamo stati sfortunati, anche questa volta.

Il colloquio, anzi il counseling – come viene pomposamente chiamato, si conclude con una chicca, il consiglio dei consigli. La prode dottoressa tira fuori dal cassetto un bollitore elettrico e ci dice, trionfante: “Con questo risolvete tutti i problemi. Infatti in molti non sanno che basta un minuto, non tre minuti, un minuto solo di bollitura per depurare l’acqua e uccidere qualsiasi germe, batterio, parassita. Poi la fate raffreddare e la bevete“.

La guardiamo tra l’allibito e – a quel punto – il divertito e ci immaginiamo a girare per Varanasi alla ricerca di una spina elettrica per bere un bicchiere d’acqua. Ci immaginiamo anche il trasporto dell’oggetto nel nostro bagaglio a mano, rinunciando magari alle scarpe. Ringraziamo sentitamente, non prima di essere riusciti a estorcere almeno la profilassi contro il tifo, “se proprio insistete“.

Seguono 10 minuti per pagare con il Bancomat (20 euro di counseling e 20 di antitifo) e 25 minuti di attesa nella stanza 43 (dove c’è un enorme poster che fa vedere come l’India sia il Paese al mondo dove è più raccomandata l’antitifica, e meno male che abbiamo dovuto insistere), per la somministrazione del vaccino. Venticinque minuti per farci dare una pastiglia. Quando entro finalmente dalla dottoressa finale io sono già pronto per una strage, ma il suo ritmo se possibile ancora più rallentato degli altri mi fa un effetto narcotizzante. Pastiglia, usciamo. Sono le 10. Piuttosto che tornare qui, smetto di viaggiare.