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Lasciare l’India è complicato, non solo emotivamente

Io negli aeroporti ci vivrei, per dire quanto mi piacciono, quindi è raro che a quei luoghi di partenze e sogni siano legati brutti ricordi, a parte Mumbai.

Siamo partiti subito male, quando tentando di fare il check-in on line è comparsa una scritta tipo: l’aeroporto dal quale si parte richiede procedure di controllo che impediscono di stampare la carta d’imbarco. Uhm.

Arriviamo all’aeroporto all’una meno un quarto (di notte), riusciamo a essere davanti all’ingresso dell’area Emirates all’una e venti (di notte): servono più di 35 minuti in macchina per fare i 100 metri della rampa che conduce alle partenze internazionali, tra ingorghi causati da pullmann che si fermano in mezzo alla strada e gincane attraverso sbarramenti messi dall’esercito – che presidia in forze – per controllare gli accessi.

Per entrare nel terminal c’è una coda lunghissima, usiamo – vergognandoci, sì – lo stile indiano e la saltiamo quasi tutta con disinvoltura, fino a quando non ci troviamo davanti a un militare che controlla i passaporti e pretende che tutti abbiano un biglietto stampato, anche se viaggiano con e-ticket. Per fortuna avevo fatto una foto col telefono e riusciamo a passare anche con quella; due ragazzi americani vengono invece spediti in un non-meglio-precisato spazio esterno all’aeroporto dove rilasciano permessi cartacei speciali per entrare. Loro allibiti, noi pure; ma entriamo.

Il mezzo check-in on line fatto ci proietta verso l’apposita coda ai banchi Emirates, non prima di aver passato un altro controllo (su lunghissimi tabulati) dal quale risultava che, sì, effettivamente avevamo i titoli per presentarci lì e non da un’altra parte. Arriva il nostro turno, consegniamo i passaporti e succede l’inverosimile; il tipo li sfoglia, poi ci guarda, e:

Ma voi cosa siete, amici?

Gli stiamo per saltare alla gola, lui se ne accorge e archivia rapidamente la domanda. Però ne pone un’altra ancora più ridicola:

Avete una copia degli e-ticket?

Gli spieghiamo il significato della lettera “e” prima di “ticket” e archivia anche la seconda domanda. Dopo 10 minuti abbiamo finito e iniziamo a cercare i consueti cartelli “imbarchi”. Invece ci sono i cartelli “immigration”. Ma no, non può essere per noi, non stiamo immigrando. E invece sì, c’è un bel salone con milioni di persone in coda per emigrare. Nei tre quarti d’ora che ci mettiamo per arrivare in fondo svariati incaricati delle varie compagnie aeree vengono a cercarsi i passeggeri uno a uno (“anyone for the Ba flight to Heathrow?”, “people travelling to Sydney tonight?”), cioè quei poveretti che si sono presentati in aeroporto in tempi compatibili con qualsiasi altra procedura, ma non con queste.

Otteniamo il nostro timbro, passiamo un altro controllo passaporti in mezzo a un corridoio, arriviamo finalmente alla security. Sappiatelo, la cosa più importante quando si viaggia in aereo in India è la targhetta di carta da mettere sui bagagli a mano e su qualsiasi altra cosa abbiate addosso: borse, borsette, marsupi, ombrelli. Quelle orrende, inutili strisce di carta che vengono distribuite a chili ai banchi delle compagnie e che di solito non servono a nulla, qui sono fondamentali, in quanto è su quelle che viene apposto il timbro di “bagaglio verificato” e senza le quali non vi faranno salire in aereo. Passiamo i controlli, otteniamo i nostri timbri. Guardo la carta d’imbarco e mi accorgo che con tutte le scritte e le sigle che ci hanno messo sopra non si legge più nemmeno il posto sull’aereo.

Ho sete, cerco di comprare dell’acqua. Nonostante siano ormai le tre di notte (più di due ore dopo il nostro arrivo a 100 metri dall’aeroporto) ci sono un sacco di voli in partenza e quindi tanta gente e quindi tutti i negozi sono aperti. Però: non accettano le carte di credito perché hanno un problema con i terminali, non accettano le monete straniere di piccolo taglio, solo i biglietti di carta da almeno 10 (euro, dollari, eccetera), però poi nel caso il resto te lo danno in rupie, che non potresti più cambiare da nessuna parte. Mi tengo la sete.

Alle 4 iniziano le procedure di imbarco. Prima i gruppi con bambini, però solo se si sono messi in fila secondo regole che sfuggono a tutti, infatti alcuni genitori si presentano al gate probabilmente facendo un percorso diagonale, mentre i tizi vogliono che sia diritto e li rispediscono in fondo. Mentre imbarcano le famiglie, quelli in coda per la first e la business iniziano a spazientirsi, e restano bloccati di fronte a un generico “you, later”.
Parte l’imbarco dell’economy, per zone. Noi siamo nella prima e siamo lì davanti da mezz’ora. C’è lo stesso tizio che ci ha chiesto se eravamo amici, l’operazione simpatia fatta al check-in produce i suoi frutti: ci spedisce in fondo alla coda, nonostante fossimo i primi. Io non gli metto le mani addosso solo perché nel frattempo rido molto vedendo che quella ragazza che viaggia in business e che si atteggia come se ce l’avesse solo lei, è ancora bloccata in coda perché stanno incredibilmente imbarcando prima l’economy. Arriviamo al primo controllo, c’è un militare che verifica la presenza dei famosi timbri sulle famose etichette di carta: una signora davanti a noi l’ha persa, ha solo la cordicella attaccata alla borsa, e viene fatta ripartire dal via – deve ricominciare tutto dalla security.

Passato il militare ci attende il tunnel che conduce all’aereo, sul quale incontriamo un ragazzo che corre verso il gate, cioè in direzione opposta: ha in mano un sacco di carte d’imbarco. Scopriamo dopo perché: il controllo delle carte d’imbarco medesime non viene fatto al gate, ma appunto in fondo al tunnel dove non c’è il computer, quindi raccolgono gruppi di carte e poi il tipo va avanti e indietro da lì al gate per farli passare dal terminale. Nel frattempo incontriamo l’addetto allo strappo delle carte d’imbarco e infine un altro militare che dà un’ultima occhiata al famoso cartellino dei bagagli. Saliamo a bordo, sono le 5 di mattina: siamo usciti dall’albergo a mezzanotte. Appena arrivato a casa ho bruciato i cartellini timbrati dei bagagli, così come gesto liberatorio.