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Un altro viaggio americano: Montreal, che magnifica sorpresa e le bici e le altalene per strada

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Da Quebec City a Montreal.

Montreal non ha un vero skyline. E quello che ha, oggettivamente non le rende onore, non racconta nulla della città, forse addirittura la nasconde – la protegge. Perché, sì – è davvero un piccolo gioiello. Con la premessa che l’ho vista in agosto, a 20 / 25 gradi, col sole e che invece qui si va da -40 a +40 quindi si passa facilmente da un inferno all’altro, ecco con questa premessa: mi è piaciuta un sacco. Ma tanto tanto tanto.

C’è sempre quella cosa della prima impressione, di che cosa ti dice una città appena arrivi, in quei primi giretti esplorativi, e a me Montreal ha detto subito un sacco di cose. Bici e spazi recuperati e strade restituite alle cose e alle persone.

Dopo quei primi giretti:

  • le bici, che non mi aspettavo: tantissime, tutte belle, quasi solo bici da corsa, alcune nuove ma la maggior parte quasi vintage; e sopra le bici tantissime ragazze, impiegati, gente qualsiasi; poi, certo, anche i ciclisti urbani locali; e ovviamente essendoci tantissime biciclette ci sono anche tanti negozi di bici, io ne ho visti alcuni molto fighi; il bike sharing funziona bene e in generale si pedala con grande facilità, come esserci nati, nonostante le città sia grande, le strade larghissime, il traffico sia quello di una metropoli nordamericana: e comunque ci sono i sensi unici eccetto bici, le ciclabili in struttura lungo le grandi arterie, quelle in segnaletica nei quartieri, tutti vanno piano e life is good;
  • tutta la zona del porto, come è stata recuperata: uno spazio immenso che adesso è passeggiata e un percorso ciclabile di decine di chilometri: quando attraversi vecchie fabbriche che non sono state ristrutturate è come entrare in un museo e la bicicletta è la tua macchina del tempo: tu pedali nella città com’era, e la ruggine, l’abbandono, i graffiti sono come cristallizzati;
  • una spiaggia all’improvviso nel vecchio porto, affacciata sul fiume San Lorenzo (che qui in città è imponente e maestoso, quasi fa paura): tutti gli ombrelloni azzurri e tanta sabbia e quel clima da svacco totale, è vacanza oppure un aperitivo all’uscita dall’ufficio;
  • un vecchio barcone che è diventato una Spa, ormeggiata nel porto, e così vedi una fabbrica che cade a pezzi e vicino gente in accappatoio bianco e sullo sfondo quel capolavoro dell’architettura che sono le case di Habitat 67: quando ci passi davanti resti colpito dalla loro stranezza, poi vai a leggere la storia e capisci che tutto ha un senso, compreso quel clima generale da anni Settanta che si respira in tanti edifici della città;
  • l’effetto che fa andare in bici (ma anche a piedi o con i pattini o come ti pare) su un circuito di Formula 1: è quel che succede al Gilles Villeneuve, che vive tutto l’anno grazie alle persone che vengono qui a passarci del tempo;
  • anni Settanta + circuito di Formula 1 = Parc Jean Drapeau perché molti di questi spazi sono figli di un Expo del 1967: è come se la città si fosse regalata un parco divertimenti, dove ognuno può fare le cose che preferisce, perché dentro il parco c’è di tutto e succede di tutto: musei, concerti, spiaggia, biciclette, gare eccetera eccetera eccetera;
  • forse ho già detto delle bici, ma della polizia in bici (più che in macchina) e della guardia medica in bici?
  • il WiFi aperto e gratuito è così diffuso in città (ma anche fuori, a dire la verità) che si può essere sempre connessi, come se ci fosse davvero un’unica rete che attraversa i quartieri e li tiene tutti legati;
  • i quartieri, ecco: Montreal è veramente immensa, anche perché a parte la zona di downtown dove c’è qualche grattacielo e palazzo alto, per il resto è tutta fatta di casette basse, e passando da un quartiere all’altro si percepisce subito l’impronta, il carattere, lo stile della gente che ci abita: e son tutti così accoglienti che passeresti ore a girellare da uno all’altro, trovandoti in una petite Italie che è il più bel quartiere italiano mai visto in una città, a una zona tutta di case ricoperte da graffiti e locali portoghesi; casette di legno a due piani, piene di cose e che raccontano le storie di chi ci abita, che andresti a suonare a ogni campanello, anche solo per chiedere notizie di quelle 5 / 10 biciclette attaccate ovunque ai cancelli fuori;
  • perfino il quartiere gay, che si capisce benissimo non aver più senso, comunque ha un suo fascino: sarà per le dimensioni (una via lunga come tutto corso Buenos Aires a Milano), sarà per quelle palle di luci rosa che fanno da cielo lungo tutta la strada, sarà per il fatto che ci sono quasi solo uomini di una certa età, visto che appunto i giovani gay stanno dappertutto in città, non so: potrebbe essere perfino squallido, però qui ti appare tenero;
  • tra un quartiere e l’altro poi ci sono piazze che diventano dei teatri e delle discoteche e dei luoghi di incontro pieni di ragazzi e di birre e di musica.

Poi dopo tutte queste cose capita che incontri un sacco di pianoforti per le strade e gente che li suona e altra gente che passa e ascolta, capita che incontri delle altalene (sì, altalene!) per strada, e gente che le usa e le altalene suonano vicino a un incrocio, lungo una strada piuttosto trafficata e allora: unisci tante piccole e grandi cose che hai visto e capisci che quel che ti ha colpito è il laboratorio di Montreal, è come sperimentano, giocano, cambiano l’uso delle cose e l’abitudine che abbiamo rispetto alle cose.

Strapromossa a pieni voti, ora la voglio vedere d’inverno.

Il racconto di questo viaggio: un altro viaggio americano / #uava