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I quartieri arcobaleno

Una strada di Nyc con i cartelloni del Pride
Prima Castro Street, poi Santa Monica Boulevard (numeri attorno a quota ottomila), infine Christopher Street: tre strade, tre quartieri, tutti arcobaleno. Poi penso a via Sammartini qui a Milano o al Gay Village di Roma e mi viene un po’ da sorridere. Come dicevo qualche post più indietro, io non ho un’idea precisa sui quartieri gay: non so se siano – come dice qualche mio amico – un ghetto, non so se rappresentino in fondo solo un’ulteriore prova del fatto che la lotta per i diritti passa attraverso botteghe e sponsor, non so se mi piacerebbe viverci. So però che passeggiare per quelle strade piene di bandiere arcobaleno mi ha fatto sentire, posso esagerare?, come a casa. La stessa identica sensazione che provavo qui a Milano, quando cresceva di giorno in giorno il numero di bandiere arcobaleno della pace esposte per le vie della città. A casa perché mi riconosco. Nel secondo caso senz’altro: a casa perché sono contento di vivere in questa città. E a Sf, La e Nyc, a casa forse perché mi sento più sicuro, protetto e libero. Esistono peraltro differenze enormi tra le zone gay (e mi dispiace per le altre sorelle, ma l’uso del termine non è casuale: gli uomini sono apparentemente molti, molti di più rispetto alle donne e ai trans*) di queste tre città, almeno da quel poco che ho potuto notare in qualche ora di passeggio; in comune, una dominanza quasi assoluta della popolazione gay (un po’ come a Chinatown per i cinesi), un costante gioco incrociato di sguardi, la sensazione di essere un po’ sempre su una passerella, il clima serenamente rilassato. Anche a San Diego c’è un quartiere gay, che s. e a. ci hanno detto essere molto carino, ma s. e io non lo abbiamo visitato. Ci ha invece colpito molto il fatto che dietro corpi super pompati (e daltronde le proteine – e altri intrugli – in confezioni da 20/30 kg le vendono solo qui) ci siano atteggiamenti e pose molto femminili; nei molti film che s. e io abbiamo girato vedendo questo o quello (mangia da solo al ristorante perché gli è saltato l’appuntamento che aveva; esce dalla palestra e va a comprare la frutta e poi a casa a vedere un film; si prepara per un viaggio in Europa) dominava la frase “ma è donnissima” (Olona avrebbe detto “lamotroppo”).
E poi Milano dunque. E l’Italia in generale. Non siamo tanto più indietro sul fronte dei diritti, gli Stati Uniti hanno un presidente come Bush e in posti come il Texas o l’Arizona non deve essere precisamente una passeggiata essere omosessuale, però nessuna città qui da noi dipingerebbe i lampioni con i colori dell’arcobaleno a indicare un quartiere gay. E non esiste nessuna Gay St (è proprio il nome di una via nel Greenwich a New York). E non esistono le pubblicità ultra mirate nei quartieri e nei quartieri non ci sono distributori di giornali gratuiti come il Bay Area Reporter (dal 1971 a San Francisco) o il Gay City News (a Nyc), entrambi quindicinali. Io continuo a non essere certo di che cosa penso realmente sui quartieri gay, ma mi sono convinto che per arrivare a pormi il problema anche qui a Milano, bisogna muoversi sulla città e nella città. E forse per deformazione professionale penso che un giornale sarebbe un buon punto di partenza; non certo i giornali gay che adesso sono nelle edicole, piuttosto un Tom cittadino e cartaceo, come si diceva qualche post fa.