Home » Caricature di città

Caricature di città

Un bell’articolo di Marco D’Eramo su Il Manifesto di ieri che parla di turismo:
[…] Il Quartier Latin [a Parigi] è un buon esempio di come il turismo può uccidere. Ed è interessante la tecnica dell’assassinio: il quartiere viene trasformato per corrispondere sempre più all’immagine che per esempio un americano si fa di Parigi. Il bistrot diventa la caricatura del bistrot. E tutto il quartiere è come svuotato dall’interno, ogni manifestazione di vita locale sostituita a poco a poco dal falso cinese, dal falso greco, dalla paninoteca e dal gelataio

il manifesto – 27 Agosto 2003 – pagina 18
Da città d’arte a Disneytown
MARCO D’ERAMO
Per fatturato, indotto, occupazione (e inquinamento) il turismo è diventato la maggiore industria del mondo. Per molte città è ormai la sola fonte di reddito. Ma le città che vivono di solo turismo ne muoiono anche

La città deserta è traversata solo da frotte di turisti accaldati, assorti nel loro stremante dovere. Le serrande sono chiuse. I senza tetto occupano le strade dormendovi anche di giorno. Aleggia un senso di abbandono, come se un pifferaio di Hamelin avesse portato con sé tutti i residenti. Così ci si mostra infine la città turistica nella sua estrema verità: un guscio vuoto, un fondale di teatro. Come la pubblicità, il turismo ci è tanto familiare da divenire impensato, da non porci più domande. Pochi sanno che il turismo è ormai la più importante industria di questo nuovo secolo. Secondo l’Organizzazione del commercio mondiale (Wto), nel 2002 gli introiti del solo turismo internazionale ammontavano per tutto il mondo a 714 miliardi di euro. E il turismo internazionale è ovunque minoritario rispetto al turismo locale: nel 2000 a New York sono arrivati 6,8 milioni di visitatori esteri e ben 29,4 milioni di statunitensi. La Francia incassa dal turismo domestico il quadruplo rispetto al turismo estero: e la Francia è il paese più visitato al mondo dagli stranieri: nel 2002 i visitatori esteri sono stati 76,7 milioni, contro i 51,7 milioni in Spagna, 45,4 negli Usa, 39,5 in Italia, 36,8 in Cina, ma quanto a introiti esteri, sono primi gli Usa che nel 2001 avevano incassato 11,3 miliardi di euro, seguiti da Spagna – 36,7 miliardi, Francia – 33,5, Italia – 29,0, e Cina – 19,9).

Si può quindi valutare almeno a 3.000 miliardi di euro il fatturato diretto dell’industria turistica mondiale: una cifra vicina al Prodotto interno lordo (Pil) della Germania unificata! E già oggi a New York il turismo genera più ricavi e occupa più personale di Wall street e del distretto finanziario. Ma in realtà al fatturato diretto, bisogna aggiungere tutto l’a-monte e l’a-valle del turismo. C’è la quasi totalità dell’industria alberghiera e della ristorazione. L’industria aeronautica (e aeroportuale) lavora quasi esclusivamente per il turismo, come anche la cantieristica navale da crociera e da diporto. Il turismo alimenta poi una bella fetta di industria automobilistica, edilizia (residenze secondarie, alberghi, villaggi turistici) e costruzione stradale e autostradale (quindi, via, via, di cementifici, di siderurgia e industria metallurgica). Vi è poi l’industria dei souvenir, delle cartoline, delle guide turistiche e carte geografiche… Sarebbe interessante tracciare la matrice di Leontieff per il turismo.

Ecco perché oggi il turismo è la prima e più importante industria mondiale, a sua volta suddivisa in settori: turismo congressuale (quello delle conventions), turismo medico, turismo senile … Ma nulla può rendere l’idea delle dimensioni del fenomeno quanto il semplice numero di viaggiatori stranieri: l’anno scorso i visitatori esteri sono stati 714,6 milioni, una marea umana mostruosa, un’orda di cavallette che tutto distrugge al suo passaggio, un’orda di cui a ognuno di noi tocca far parte. Perché il turismo è anche l’industria più inquinante (oggi si parla sempre più spesso di un «turismo sostenibile», altrettanto ossimorico dello «sviluppo sostenibile»). Il turismo ci mostra quanto assurda è la contrapposizione tra moderno e post-moderno, perché, in quanto «superfluo», rientra di diritto nel post-moderno, ma la sua materialità di acciaio, auto, aerei, navi, cementifici, lo situa tutto dentro la pesantezza industriale del moderno.

Il turismo è perciò la prima fonte di sussistenza per una porzione crescente dell’umanità (in Italia, con l’indotto rappresenta il 12% del Pil e, con più di due milioni di addetti, il 9,4% dell’occupazione) ed è diventato la prima fonte di ricchezza per numerose città. Per alcune, come le nostre «città d’arte», è ormai la sola fonte di reddito. Ma il turismo può uccidere una città perché la rende monofunzionale, puro tourist district. John Urry ha scritto un libro, The Tourist Gaze, sullo «sguardo turista», su come cambia il nostro modo di percepire la realtà (e quindi cambia la realtà che produciamo) se la guardiamo, come sempre più spesso accade, da turisti. Ma noi italiani lo sappiamo benissimo, lo «sguardo turista» agisce anche all’inverso, su chi di questo sguardo è oggetto, non solo su chi lo lancia: fa sì che i cittadini delle città d’arte vivano sempre sotto lo sguardo turista, vivano sempre sotto sorveglianza di uno sguardo letteralmente «fuori posto». Come andare in bagno la notte quando la casa è piena di ospiti indesiderati, scavalcando corpi sconosciuti in salotto.

Ho molto frequentato il Quartier latin di Parigi per tutti i primi anni ’70 del secolo scorso: era animato, vivo, nonchalant. 30 anni dopo, è un quartiere morto, un’area disastrata dominata da squallore a buon mercato. Il Quartier Latin è un buon esempio di come il turismo può uccidere. Ed è interessante la tecnica dell’assassinio: il quartiere viene trasformato per corrispondere sempre più all’immagine che per esempio un americano si fa di Parigi. Il bistrot diventa la caricatura del bistrot. E tutto il quartiere è come svuotato dall’interno, ogni manifestazione di vita locale sostituita a poco a poco dal falso cinese, dal falso greco, dalla paninoteca e dal gelataio. Nello stesso modo, Trastevere è la caricatura del romanaccio. È un processo che avviene in tutte le città del mondo sotto i nostri occhi, senza che ce ne accorgiamo. La città di Québec è proprio come una fiaba di fate può immaginare una cupa fortezza sul fiume San Lorenzo. New Orleans corrisponde ormai all’immagine di New Orleans. Sono tornato dopo trent’anni a San Gimignano: dentro le mura non c’è più un macellaio, un verduraio, un panettiere vero; d’altronde in centro, chiusi bar, ristoranti e negozi di souvenir, non resta più a dormire nessun sangimignanese: abitano tutti nei moderni condomini fuori mura, vicino ai centri commerciali: dentro le mura, tutto è diventato un unico set cinematografico di film medievale, in costume, con tutti i prodotti di un’«invenzione della tradizione» a uso turistico.

Il modello europeo di questo processo è il castello di Neuschwanstein costruito a strapiombo su un laghetto alpino dal re Ludwig II di Baviera e finito nel 1886, tipico castello da favola, falso medievale, con pinnacoli, torrioni. Il modello americano è Disneyland, dove tutto è più vero del vero, il castello è più medievale del medioevo, l’accampamento indiano più Apache degli Apaches. Da questo punto di vista, Venezia è una Disneyland già pronta, a mono-uso turistico, con giro in gondola e cantate napoletane, e naturalmente città che muore.

Il turismo sta diventando la sola industria locale per molte città, che così diventano company towns, come Essen era la città dei Krupp, Clermont-Ferrand quella della Michelin, Torino era la città della Fiat e Detroit quella della General motors. C’è una soglia che separa una città turistica da una città che vive anche di turismo. Fino a che l’afflusso di visitatori non supera questa soglia, i turisti usufruiscono di servizi e prestazioni pensati per i residenti. Per esempio mangiano in ristoranti che cucinano per i locali. Oltre questa soglia invece, i residenti sono costretti a usufruire dei servizi pensati per i turisti. Questo è chiaro nei ristoranti. Trent’anni fa era praticamente impossibile mangiare male a Roma e Firenze. Oggi è difficilissimo mangiare bene. Perché un ristoratore dovrebbe dannarsi per cucinare con cura per un cliente che non tornerà mai più? E se anche il cuoco fosse dotato delle migliori intenzioni, assisterebbe alla richiesta di ketch-up sui funghi porcini alla griglia, di parmigiano sugli spaghetti ai frutti di mare. Oltre la soglia in cui una città diventa turistica, i residenti sono costretti a entrare in clandestinità, a comunicarsi sottovoce gli ultimi indirizzi accettabili («ma non farlo sapere ai turisti!»).

Il turismo non solo fa vivere le nostre città e i nostri centri storici, ma – diventando la loro unica fonte di reddito – la fa morire, perché le nostre città stanno diventando tutte immense Disneytown: paninoteche e boutiques di lusso, pizze a taglio e ristoranti tre stelle Michelin, isole pedonali, e poi tanti dormitori eleganti per ceti medi. Già oggi nel Nordeuropa le isole pedonali si assomigliano tutte (sono un altro dei «non luoghi» di Marc Augé) e i centri vengono trasformati in entertainement districts, dove però non si diverte nessuno.

Il turismo distrugge non solo le città ma le relazioni sociali. Era già avvenuto con la ferrovia: i saint-simonisti pensavano che i viaggi in treno avrebbero avvicinato l’umanità e, facendo conoscere l’un l’altro i vari popoli, avrebbero fatto scomparire le guerre. In realtà i binari permisero alle tradotte di trasportare truppe e munizioni. Così la relazione tra indigeno e turista è la peggiore, la più inumana mai stata instaurata. La sola dote che il turismo incoraggia nell’indigeno è l’avidità, la brama di guadagno rapido. E il turista, nella migliore delle ipotesi visita con cura non tanto un paese quanto la guida Lonely Planet o il Guide Bleu di quel paese; nella peggiore non conosce nulla né vuole conoscere nulla, comunque non è interessato agli umani ma solo all’«umanità morta» (come si parla di «lavoro morto» per il capitale), cioè monumenti e musei. L’apoteosi di questa prospettiva la visita della città in pullman con l’aria condizionata, in cui non giunge un odore, non penetra un rumore, e tutta la percezione si riduce alla vista. Il turismo disgrega le relazioni sociali tra i residenti e, per definizione, riduce ad entertainement quelle tra autoctoni e visitatori.

Qualunque attività locale viene distrutta dal turismo: basta ricordare la costa settentrionale di Creta come era negli anni `60, con la sua agricoltura, il suo allevamento, la sua pesca, la sua povertà, e come è invece oggi, un’immensa periferia di casermoni in riva al mare. Lo stesso avviene in intere zone della Toscana, dove non c’è più una cascina in cui venga esercitata un’attività agricola, coltura, bestiame, ma sono tutte diventate residenze secondarie: casolari ben tenuti, rifatti con le travi del soffitto a vista, con le mura esterne a cui è stato tolto lo stucco per mostrare la viva pietra, con l’orto rimpiazzato dal giardino. Solo che questi casali sono vuoti, morti, per undici mesi l’anno e la campagna toscana (come anche tutta la Provenza) è diventata un immenso residence, ripulito, ridipinto, restaurato, con vasetti di geranio ai davanzali, dove ormai villeggiano solo pasciuti, danarosi inglesi e tedeschi: non a caso si chiama Chiantishire.

Ma la mono-industria è sempre pericolosa per una città: la General Motors fece ricca Detroit, ma poi se ne andò e la Motown è oggi un abominio di desolazione, un deserto umano. Già oggi Venezia è una città morta: basta camminare tra le case in una notte di novembre, senza nemmeno una finestra illuminata, per rii e rii. Firenze è già molto avanti su questa china. Roma e Parigi si avviano per la stessa via. Quando la moda sarà cambiata e le orde sceglieranno altre destinazioni, lasceranno dietro di sé solo cartacce, bottiglie rotte, lattine e rifiuti come dopo un concerto di piazza. Ecco perché la città agostana è profetica. Vedo passare un orda di turisti grassi, sudati, in orribili pantaloncini corti e sandali coi calzini. Dall’altro lato della strada vuota un senzatetto defeca tranquillo, in pieno giorno, in pieno marciapiede.