L’altra sera ho cenato con tre amici. Un uomo e due donne. Medici. Ci conosciamo da tanti anni, dai tempi della (loro) facoltà di medicina. In questi contesti si parla spesso di salute, malattie, medicine, ospedali, eccetera. Io ci sono abituato e in fondo mi piace: per me è un E.R. dal vivo, un Gray’s Anatomy in cortile.
Loro parlano della vita e della morte e delle malattie in un modo che non trovo mai cinico (il cinismo mestierante dei dottori), ma appunto naturale. Comunque sia, l’altra sera si è parlato di morte, altra cosa che 20 anni fa non succedeva, e ci sarà una ragione. Così loro tre hanno espresso tre preferenze: uno ha detto che vorrebbe avere un po’ di tempo (giorni, settimane) per prepararsi, salutare, raccontare, spiegare – e quindi vorrebbe una malattia con una fase terminale non lunga, ma sufficiente; una ha chiesto tempo, ma solo qualche minuto (due o tre per la precisione) per prendere atto della situazione, preferendo quindi precipitare con un volo aereo; la terza ha indicato sempre l’aereo, ma in un contesto esplosivo, quindi con qualche frazione di secondo a disposizione e nulla più.
Questo scenario non mi è dispiaciuto: in cenere volando sopra il Maine o la Bretagna. Una cremazione naturale. La mia tomba sul mare o su una costa. O al massimo in un piccolo cimitero islandese.
Prendetene nota.