Varanasi, ghat Manikarnika: il fumo è quello di una cremazione appena conclusa.
Questa è una foto (di s.) che abbiamo fatto e non avremmo dovuto: non si possono fotografare i ghat delle cremazioni. Però per uno scatto rubato, ce ne sono decine che invece non sono mai usciti dalla macchina fotografica. Perché questo è stato il viaggio delle cose che non possono essere raccontate, delle parole quasi sempre sbagliate. Poi finisce che fotografi solo le cose belle: la magnificenza del Taj Mahal e della sua grande storia d’amore, i colori delle spezie e dei vestiti delle donne, il cibo.
Foto che non ho fatto n° 1: in India
Un cumulo di spazzatura e calcinacci, l’aria piena di polvere e foschia, una mucca che mangia tra i rifiuti sui quali dorme un cane magrissimo e ricoperto di pulci, attorno ragazzini che giocano vicino a pozze d’acqua stagnante: nelle città (in periferia, alcune volte – in pieno “centro”, più spesso), nelle campagne viste dai finestrini del treno, lungo le strade e le autostrade attraversando i paesi in macchina, ovunque.
Foto che non ho fatto n° 2: a Varanasi
Una scala ripida da una casa semi diroccata, che un tempo poteva essere un castello o un fortino e adesso forse è un tempio, arriva fino in riva al Gange, uno spiazzo, una bara di legno chiaro aperta e le corone di fiori tutto intorno, con le capre che li mangiano lentamente. Un cumulo di legna a formare una sorta di altare, e un fuoco acceso proprio vicino al fiume. Il cadavere avvolto da un telo bianco, in braccio a due persone che nel frattempo parlano con altri, lavorano a oggetti, creme, teli. Non capisci chi sono i parenti, ci sono decine di uomini e di donne sulla scena, poi intuisci che molti sono addetti alle cremazioni, che portano avanti piccoli riti, altri sono solo curiosi, e poi qualche turista. Un bambino piange, in mezzo a tutta quella che a te sembra una paradossale confusione, finalmente c’è qualcosa di familiare: il dolore. Arrivano anche i cani, con il loro consueto carico di pulci, e una mucca scende lentamente dalle stesse scale ripide. Ti dicono continuamente che puoi stare lì a guardare, ma non fotografare. Qualcuno fa il bagno nel fiume, proprio dove poco prima hanno buttato le ceneri di un altro defunto e dove tra poco butteranno quelle del corpo che è proprio lì di fronte a te, e sul quale adesso iniziano a massaggiare creme e unguenti. Chiudi gli occhi e pensi a un nostro funerale, alla chiesa, ai vestiti scuri, alle giacche e alle cravatte; poi li riapri e nel frattempo la mucca è arrivata lì vicino e adesso oltre alle capre e ai cani c’è anche qualche scimmia e una montagnetta di sterco fresco.
Foto che non ho fatto n° 3: alla stazione di Jaipur
Stazione di Jaipur, in pieno Rajasthan, le 11 di sera. Il treno che ti porterà a Udaipur è in ritardo di quasi due ore, cammini su e giù lungo le banchine. L’altoparlante non smette mai di annunciare arrivi e ritardi, in due lingue. I vagoni della sleeper class che ti passano davanti sembrano quelli dei treni dei deportati, con le finestre piccole e le sbarre: tutti viaggiano avvolti in coperte pesanti, che spesso sono belle, decorate. Anche quelli che aspettano, come te, sono avvolti dentro queste case di lana, e dormono per terra o accovacciati in giro. Tutti attraversano i binari come se fosse la cosa più normale del mondo, nonostante la banchina sia molto alta. Ti affacci, e vedi un topo. Poi ti accorgi che sono due, ma no: sono decine. Mangiano gli escrementi lasciati dai treni lungo i binari. Cercando di guardare da qualche altra parte vedi un gruppo di persone che lentamente si avvicina: stanno camminando lungo i binari, hanno guanti azzurri e vestiti normali: il loro lavoro è raccogliere la spazzatura. Proprio lì, in mezzo ai topi. Pensi se ci può essere al mondo un lavoro peggiore, pensi al tasso di disoccupazione indiano, inferiore al 10%, pensi ai forconi in Italia. Poi finalmente riesci a pensare ad altro, guardi verso l’ingresso della stazione, c’è la luce dei pannelli con gli orari e un tappeto umano di famiglie, vecchi, uomini qualsiasi che dorme per terra.