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Di quando ho investito un ciclista e altre storie lontane nel tempo

Anni Sessanta
In che senso “domani lezione di guida”, papà?

 

Papà viveva in macchina. Era il suo lavoro, ma soprattutto era il suo spazio di libertà, il modo per tenere a bada quella costante voglia di scappare che viveva con lui da sempre. Se poi ci aggiungi che faceva parte di quella generazione che aveva avuto 15 anni durante la guerra, che aveva vissuto quegli anni cruciali nelle città (Bologna e Milano soprattutto) devastate dalle bombe e che poi si era buttato anima e corpo nel boom dei primi anni Sessanta, che anche dalle automobili è stato sostenuto, ecco che il quadro è completo.

Comunque: viveva in automobile e aveva una sorta di adorazione per quel mezzo. Così appena poteva mi prendeva e mi portava in giro da qualche parte. Ho ricordi nitidi di quell’Italia lì, di tante città che ho visto allora e chissà come saranno adesso, di strade che non erano tutte autostrade e di come bisognava imparare il linguaggio dei camionisti per riuscire a superare nei tratti con tante curve o salite. Meno autostrade e niente cinture di sicurezza: ogni volta che frenava papà allungava il braccio destro verso di me, per tenermi bloccato al sedile. È un gesto che ogni tanto mi accorgo di fare anch’io le rare volte che mi capita di guidare e di frenare di colpo.

E quindi mi ha insegnato a guidare molto presto. Avrò avuto 14 anni, comunque appena raggiunta l’altezza sufficiente per arrivare ai pedali: nelle strade di campagna, in qualche parcheggio di estrema periferia, quando capitava. A 15 anni guidavo come se nulla fosse. Non lo sapeva nessuno, era il nostro segreto. Anche quando, nei mesi successivi, abbiamo iniziato a litigare su qualsiasi cosa, l’automobile restava il nostro angolo di serenità.

Credo mi abbia costretto a presentarmi per richiedere il foglio rosa alle 7 del mattino del primo giorno utile e poi mi ha preso una macchina usata per sfidarmi su quella cosa che clandestinamente non avevamo potuto sperimentare: il parcheggio cittadino. Era una vecchia Fiat 131 lunghissima, con uno sterzo che bisognava girare con due mani tanto era duro. Ho imparato a parcheggiare. Era marzo. In giugno prima che partissi per il mare mi ha regalato una macchina nuova: una Renault R4 rossa. Anche lì c’era una piccola sfida, il cambio nel cruscotto o come si chiamava.

Arrivò l’estate, che fu piena di giri su e giù per le Apuane, e in Garfagnana e dentro e fuori Lucca e tutto quello che si può raggiungere dalla Versilia. Poi arrivò anche la fine dell’estate, il classico temporale che ai tempi faceva da spartiacque tra i giorni pieni di sole e quelli sempre più incerti e umidi in pineta.

Aveva piovuto tanto tutta la notte, al mattino il cielo era scurissimo ma non pioveva più: dopo pranzo prendo la macchina per andare non ricordo dove a fare non ricordo che cosa, guido nelle vie della pineta di Forte dei Marmi, stradine strette che conosco come le mie tasche; non c’è nessuno in giro, vado veramente piano.

Poi quando riapro gli occhi c’è sangue ovunque, la macchina contro il muretto di una villa, il parabrezza non c’è più, il finestrino dal mio lato è in pezzi.

Le strade della pineta erano completamente ricoperte di aghi di pino, tanti da nascondere lo stop che infatti lui, il nonnetto in bici che ho investito, non ha visto e tanti da rendere inutile la mia frenata, con la macchina che si è girata ed è poi andata dritta contro il muro. Il nonnetto è saltato sul cofano con tutta la bicicletta, ha sfondato il parabrezza e il resto non lo ricordo.

Lo portano via in ambulanza, io sto lì con i vigili: sono una maschera di sangue e ho frammenti di vetro ovunque ma mi faccio solo medicare al volo e poi voglio stare lì per capire. O più probabilmente perché non capivo esattamente che cosa stesse succedendo. Nel frattempo dall’ospedale giungono notizie rassicuranti: non si è fatto nulla, solo molti tagli, dopo qualche ora sarebbe tornato a casa. Io concludo la giornata dai carabinieri: nel frattempo papà ha parlato al telefono con il comandante, ed è proprio lui che insiste perché io torni subito a guidare. “Altrimenti questo choc te lo porterai dietro tutta la vita“. Insomma, tutte le attenzioni erano su di me, come se fossi io la vittima.

Non ricordo bene il resto di quel pomeriggio, se non che mi guardavo allo specchio e mi spaventavo da solo: tutti quei taglietti, coperti da microcerotti bianchi e la tintura di iodio ovunque.

Il comandante mi ha accompagnato in albergo alla fine del suo turno di servizio, insistendo affinché guidassi io.

Io ho continuato a guidare, con papà abbiamo continuato a litigare. E questo episodio mi torna in mente solo ogni tanto, invece forse dovrei ricordamelo più spesso: non giudicare le persone, il ruolo del caso e della fortuna, cose così. E soprattutto: se vai piano ti puoi permettere anche una microdistrazione. Ah, papà, ti volevo dire che l’automobile l’ho rottamanata, non ti arrabbiare.