Da Burlington, Vermont / Usa a Quebec City, Quebec / Canada.
Se i giorni dei viaggi in aereo sono dei non-giorni, quelli successivi sono tutti dei super-giorni: ti sembra di essere in giro da mesi e invece hai lasciato l’Italia da 24 / 48 ore al massimo. Però hai già visto un sacco di cose, fatto migliaia di confronti, pensato a come sarebbe la tua vita qui e poi lì e poi là. In tutto ciò io non so esattamente che giorno sia oggi e questo per me vuol dire vacanza.
Il viaggio da Burlington a Quebec City non lo classifico tra i più memorabili: alcune ore di automobile e basta – ah, ovviamente tra milioni di alberi, che dopo poco non noti nemmeno più. Tra l’altro mentre il confine Usa-Canada tra Seattle e Vancouver è molto scenografico, con prati e bandierone e cerimoniali e lunghe code, ecco qui invece si passa tipo un casello autostradale con la casellante che ti fa una serie di domande trabocchetto per metterti in difficoltà e capire se sei un manigoldo: “In Italia quando tornate?” e poco dopo “Quando tornate in Italia?” e ancora dopo qualche altro quesito “Italia: quando ci tornate?”.
Un’altra sostanziale differenza rispetto all’altra parte del Canada – detto che appunto Seattle e Vancouver sono due città che si assomigliano parecchio – è che qui parlano francese, quindi il salto dagli Usa si fa subito evidente. Un salto che però non è nulla rispetto a quello che si percepisce arrivando a Quebec City: l’Europa all’improvviso.
La città è carina, peccato solo sia mostrificata da un eccesso di turismo becero – ben rappresentato anche da negozi e ristoranti, appunto beceri: anche in questo assomiglia al centro storico di una città europea. Ma europea non basta a raccontare Quebec City, che è tante città tutte insieme: qualcosa di Innsbruck, angoli di Carcassonne, St. Moritz, Parigi e perfino Londra.
Quando ti guardi attorno e vedi ovunque i segni dell’inverno (cartelli “pericolo caduta ghiaccio”, assenza di balconi, finestre piccole-piccole) capisci anche perché c’è un clima vicino all’euforia collettiva permanente in queste giornate di sole: qui almeno metà dell’anno si passa sottozero e sotto chissà quanta neve. Anche a Reykjavík ricordo la stessa sensazione: vedi le persone che sono felici prima di entrare in un altro lungo letargo.
Dicevo comunque carina perché è fatta di tanti livelli: c’è quello del porto e della ciclabile che corre lungo il fiume, c’è quello delle vie dello struscio turistico, c’è quello della piazza davanti al castello (che è un albergo, non nel senso che dentro al castello ci hanno fatto un albergo, ma nel senso che lo hanno proprio costruito così e alla fine un albergo è diventato di fatto l’icona della città), c’è la città nuova dove i turisti non arrivano e invece il clima umano è vivace. Poi vabbè ci sono parchi ovunque e chiese sconsacrate dove vendono libri usati e tanti edifici anche anni Settanta, ma della parte buona degli anni Settanta.
E biciclette, anche qui – biciclette da corsa anche qui, che ti aspetti di vedere anche dei bike messenger e quel tipo di ciclista lì, anche qui.
Il racconto di questo viaggio: un altro viaggio americano / #uava