La mia età di normale ipocondria l’ho avuta, e superata brillantemente, alcuni anni fa. Come tutti i maschi circa quarantenni mi agitavo per ogni minimo dolore intercostale, il mal di pancia era sempre anticamera di una colica, il mal di testa non ne parliamo nemmeno. Soffro d’asma, soffoco. Ho fatto sicuramente un sacco di esami inutili, prenotato visite specialistiche “lei sta benissimo”, comprato medicine che tanto male non faranno. Poi i quarantanni sono passati, ho imparato a invecchiare senza pensare ogni giorno al dramma, e come tutti – o come tanti – sono uscito da quella fase di ossessiva prevenzione per entrare in quella della serena rassegnazione.
Per questa ragione quando l’anno scorso il mio amico Bruno mi ha diagnosticato questo prolasso della mitrale l’ho presa bene, quasi mi è venuto da ridere pensando a come invece avrebbe reagito il Marco di 15 anni fa di fronte a una valvola del cuore che “vedi, non si chiude più perfettamente“.
Ah, ecco, sì: si vede proprio.
Quella valvola però evidentemente non mi è mai uscita dalla testa, nonostante ci abbia pedalato parecchio sopra e nonostante ci abbia corso una maratona, cioè la maratona. Perché la bici e la corsa son cose del giorno, poi arriva la notte. E in questi mesi tante notti sono stato lì, a pensare alla mia valvola.
Ci pensavo e sentivo qualche dolorino, un leggero senso di oppressione; mezzanotte, l’una, l’una e mezza: mi muovo, e se mi muovo e peggiora? E se mi muovo e sento una fitta? Non mi muovo, sto qui immobile.
Ci pensavo, sentivo quel leggero senso di oppressione e allora: non credo mi piacerebbe morire nel sonno. Cioè, sì, da un lato, certo: non ti accorgi di nulla, che cosa vuoi di più? Dall’altro, che cosa orrenda, nemmeno un abbraccio, un saluto, niente. Non sono pronto per morire di notte, meno che meno per morire questa notte.
E così prendevo il coraggio a quattro mani per muovermi – no, nessuna fitta, prendevo una penna e un fogliettino e scrivevo un saluto per Quell’Altro. E questa cosa mi faceva sentire bene. Meglio, diciamo.
Non una notte, tante notti. Un paio, dieci, una ventina direi così a occhio. E all’inizio su quel fogliettino c’era solo un saluto, grazie per questa vita meravigliosa che abbiamo passato insieme. Poi anche una richiesta: portami da qualche parte.
Una notte ho scritto a Quell’Altro di portarmi al Grand Canyon, ma non quello dove vanno tutti, di portarmi al North Rim (The North Rim Is harder to get to, and is more wild and secluded), uno di quei posti al mondo dove pensi che forse un dio può esistere e se esiste deve essere passato di lì.
Che cosa posso scrivere in un biglietto così piccolo che faccia stare bene me adesso e te per sempre? Andiamo in uno dei nostri posti preferiti, sulle rive del fiume a Bangkok oppure sulla cima del Rockfeller Center a New York; però, no, forse non te le fanno buttare le mie ceneri dalla cima di un grattacielo americano.
Alcune notti non avevo carta per scrivere e allora scrivevo sulle mani, e chissà forse stavo già sognando perché a volte mi ritrovavo il palmo della mano tutto pasticciato, senza niente di davvero comprensibile.
Chissà che cosa avrei voluto dirti.
Mi è capitato anche in questi giorni. La notizia dell’eruzione alle Hawaii mi è rimasta così tanto impressa che, certo, ti ho scritto: grazie per questi anni incredibili e tutta la pazienza che hai avuto con me, e mi piacerebbe proprio tornare alle Hawaii, mi porti?
E laggiù, tanti posti dove rimanere per sempre. Quella casetta vicina al fiume a Waimea o le pozze di acqua bollente in riva al mare gelato dove ti eri trovato così bene. Ma in effetti, io meno, era pieno di granchietti. Quindi no, Big Island non va bene e allora a Maui, portami su quella panchina di legno in riva all’Oceano, te la ricordi? Portami lì, c’erano quei pini altissimi e la spiaggia dei surfisti a un passo. Oppure in cima all’Haleakala, da dove si vedevano il Pacifico e i vulcani.
Insomma, non lo so, portami dove vuoi, anche nel piccolo cimitero di Williams, Arizona, con quelle lapidi bianche e le panchine, niente recinzioni o staccionate, si può stare qui, si sta bene qui. Oppure in quella chiesetta col campanile rosso sulla scogliera a Vik, in Islanda. Portami in un posto dove ci sia tanta aria, dove si possa respirare.
Non ce la faccio quasi mai a scriverle per esteso tutte queste cose su quel piccolo foglietto, e così spero che basti qualche mezza frase, tanto lo sai, tanto lo sappiamo in fondo. Non ci sarebbe nemmeno bisogno di scriverlo.
Non una notte, tante notti. E tante mattine che mi sveglio con questo foglietto accartocciato nella mano. Mi sveglio, mi ricordo e sorrido.
L’altra mattina c’era scritta anche la password di Gmail: portami al North Rim, e non ti dimenticare i miei account.