Mi ricordo di tante brutte giornate e di tanti brutti momenti. Ore, giorni, lunghi pomeriggi neri. Non mi ricordo, invece, di aver mai passato una settimana come questa, un tunnel nel quale mi sono infilato e dal quale non sono mai riuscito a uscire. Otto giorni senza trovare un angolo di pace, pochi minuti per prendere aria, una piccola luce che si accende anche solo per poco. Una settimana durante la quale il mio, il nostro, mondo si è fermato, non esisteva più – o chissà dov’era. Abbiamo continuato a vivere e a lavorare, a parlare con le persone, a rispondere a email, a fare call, ma nonostante queste attività, tutto era fermo.
Di più: come era possibile che le vite degli altri andassero avanti? Che ci fossero le partite di calcio in TV? Che i supermercati vendessero le albicocche e che la variante delta fosse al 5%? La settimana più brutta della mia vita è stata quella dove non potevo capire come la vita stesse andando avanti più o meno come sempre, mentre io facevo quasi fatica a respirare.
Tutto è incominciato verso la metà di maggio, non mi sentivo benissimo e iniziavo a mettere a fuoco l’idea che un anno di pandemia stesse presentando il conto, che il burning out non fosse più solo un fenomeno del quale leggevo.
Marco, sei un po’ esaurito, ammettilo.
Poi un giorno sono caduto dalle scale come un pirla e ho battuto la testa. Un pirla che poi decide di non andare in un pronto soccorso e nei giorni successivi si tiene un mal di testa assurdo e inizia ad accumulare una serie di altri fastidi, dolori sul lato destro del capo, alle spalle, al braccio, alle mani. Fino alla perdita di sensibilità a due dita della mano destra, il pollice e l’indice. Tra l’altro: usare una tastiera senza sentire quelle due dita è uno spasso, per non dire del trackpad e dello smartphone.
Tu non senti le tue dita, i tuoi dispositivi tecnologici non sentono te.
Vado a farmi vedere: cervicobrachialgia. Inizio a curarmi. Dopo qualche giorno passa il mal di testa e una serie di sintomi sparsi, ma non tornano le dita. Anzi, ogni tanto spariscono anche quelle della mano sinistra. Torno a farmi vedere: una settimana di cortisone e una risonanza magnetica alla colonna cervicale. Il cortisone ovviamente è una meraviglia, mentre la risonanza apre il grande capitolo della mia claustrofobia.
Negli anni ho sempre evitato quell’esame quando mi è capitato che me lo prescrivessero perché era fuori dalla mia portata, e quando ci ho provato non è andata bene perché dentro quel tubo per me è impossibile stare. Quindi pretendo che mi prescrivano una risonanza magnetica aperta, che vuol dire realizzata su macchine che non hanno la forma del tubo e che però non garantiscono la stessa qualità nei risultati rispetto a quelle chiuse.
E così un martedì vado a fare questa risonanza magnetica alla colonna cervicale. La sera mi collego al fascicolo sanitario e c’è già il referto: discopatia, artrosi eccetera poi non capisco bene. Leggo e rileggo: il reperto più rilevante, alterato segnale, lesioni. Presenza nel midollo di due lesioni. C1-C2. C3-C4. Non ho avuto la lucidità di fermarmi e ho incollato quelle frasi su Google: mi si è materializzato davanti uno scenario nel quale la migliore delle ipotesi era tragica.
Si ritiene indispensabile completamento della RM cervicale con mezzo di contrasto ed esecuzione di RM cerebrale con mezzo di contrasto, possibilmente da eseguirsi con apparecchio ad alto campo di 1.5 o 3 Tesla.
La settimana più brutta della mia vita inizia un martedì sera, inizia con la paura di non avere più tempo, di non avere più tempo buono, di dover affrontare non uno ma tanti mondi ignoti e chissà come. Con la mia consueta capacità di auto-suggestionarmi mi sento improvvisamente davvero malato, capisco che forse tante sensazioni delle settimane precedenti non erano un esaurimento nervoso e che forse la stanchezza non era solo stanchezza e mi guardo allo specchio e mi vedo proprio male. La settimana più brutta della nostra vita insieme è una settimana di grandi silenzi e tanti sguardi, abbracci, un fiume di parole non dette che porteremo con noi per chissà quanto tempo.
Ho paura di essere malato e mi sento anche in colpa perché penso alle persone malate, alle mie amiche e ai miei amici che hanno affrontato prove durissime, e io davanti a un referto già vado in tilt. La settimana più brutta della mia vita è quella durante la quale non so. E quindi non posso reagire. Non sai che cos’hai. Sei completamente privo di forze e di risorse. Quando cerchi rassicurazioni, poi, non le trovi e, anzi, le parole che ascolti non fanno che aumentare il tuo terrore.
Succede anche una cosa incredibile – e meravigliosa: svanisce la paura della risonanza chiusa, svanisce la paura del tubo. È come se la mia mente mi avesse dato le risorse per gestire quel passaggio, mi avesse messo nelle condizioni di affrontarlo. Non mi spiego altrimenti il fatto che tra quel martedì sera del referto e il venerdì delle nuove risonanze io non abbia pensato a quella macchina come a un oggetto dal quale fuggire, ma al contrario come al passaggio indispensabile per sapere. E sapere era naturalmente anche la chiave per aprire la porta e tornare nel mondo. La settimana più brutta della nostra vita è quella nella quale non sappiamo, non abbiamo strumenti, non abbiamo difese, nulla.
Arriva finalmente venerdì, vado a fare l’esame. Mi prendo qualche goccina di sicurezza ma non ce ne sarebbe bisogno, davvero non ho più paura di quel tubo, e non mi torna nemmeno quando l’infermiera che mi prepara per il liquido di contrasto, informata della mia claustrofobia, apre la porta della sala e afferma trionfante: «Ecco la nostra macchina infernale». Bene, dai.
Faccio l’esame, che dura tantissimo, quasi un’ora. Quando mi tirano fuori e smontano tutti gli aggeggi che mi hanno messo addosso per un momento penso sia tutto finito. Vedo Quell’Altro che mi aspetta in corridoio e per un momento mi illudo che la settimana più brutta della nostra vita sia finita. Non lo è perché per gli esiti bisogna aspettare fino al mercoledì successivo. Quasi 5 giorni. 120 ore. Cerchiamo di fare la nostra vita, sabato andiamo al Pride, cerchiamo di stare dentro al mondo. Non credo che ci riusciamo.
Tutte le volte che mi è capitato di passare davanti alla scritta “consegna referti” in un ospedale o in un poliambulatorio ho provato una sensazione di disagio. Ho sempre pensato che questa cosa dell’attesa dei risultati fosse tremenda da gestire, e anche proprio il momento del ritiro, l’atto di consegna di quella busta, boh – come se ti consegnassero una sentenza. Da questo punto di vista internet ha cambiato tante cose in meglio, come quasi sempre, perché se non altro puoi aprire quella busta elettronica in un contesto amichevole e non in un qualche corridoio o chissà dove. L’attesa prima e la consegna dei referti poi mi hanno sempre fatto pensare al fatto che dentro lì ci può essere scritta una condanna a morte, e chissà se le buste sono tutte uguali, magari su quelle con referti brutti mettono un bollino o chissà magari ti chiamano prima, spero di sì.
Quei 5 giorni sono passati ripensando a tutti i momenti nei quali osservavo le persone ritirare un referto, cercavo di immedesimarmi nelle loro sensazioni, attendevo un segnale di reazione che parlasse di sollievo. Tanto mi sono sentito in colpa nei giorni precedenti per non essere in grado di gestire un passaggio della vita, altrettanto mi sono sentito vicino a tutte le persone che nella loro vita aspettano continuamente gli esiti di un qualche esame e con gli esiti la forma che avrà il loro futuro. Forse i risultati dovrebbero sempre essere dati subito dopo l’esame, forse bisognerebbe fare qualcosa per queste attese.
Mercoledì l’attesa è finita. In questo caso il referto non può essere ritirato on line perché viaggia insieme a un cd con tutte le immagini e quindi alle 15:25 ci presentiamo allo sportello. Iniziano a cercare la mia busta, non la trovano.
Qual è il nominativo che non hanno ancora refertato? Mazzei?
La settimana più brutta della nostra vita non termina alle 15:30, e anzi diventa ancora più brutta. Perché manca proprio la mia busta? In quel momento sono sicuro che avrei visto arrivare una dottoressa con una grande busta e un bollino rosso, l’incubo che si materializza.
Invece no, dopo una quindicina di minuti che passiamo seduti nella sala ritiro referti e che sembrano durare secoli, arrivano altre buste e c’è anche la mia. Non ci sono bollini.
Non voglio aprirla lì in quel corridoio, non voglio stare in mezzo alla gente. Usciamo, cerchiamo una panchina, la leggiamo insieme. La settimana più brutta della mia vita è anche quella nella quale insieme ha preso significati e intensità che nemmeno quelle più belle della nostra vita.
Alla fine il referto non è da tragedia, ma da attenzione. Queste lesioni al midollo ci sono, ma non sembrano attive, quindi non è tutto OK ma il mondo non finisce oggi e il tempo prende subito un’altra forma.
La settimana più brutta della nostra vita finisce un mercoledì pomeriggio d’estate, finisce con una lunga visita neurologica e un lunghissimo elenco di esami da fare, finisce con un piano di tante risonanze prima ravvicinate poi a mano a mano speriamo più diluite da affrontare nei prossimi mesi. Nel frattempo le dita della mano destra non sono tornate, ma mi sto abituando a scrivere anche senza sentirle sulla tastiera. Capisco meglio il senso di investire tanto sulle tecnologie vocali. Ehi Mac, apri iA Writer e scrivi questo post.
Il giorno dopo partiamo.
Io sono ancora un po’ scombussolato, però la montagna è stata preziosa anche questa volta. Scusatemi se in questo periodo sono stato più antipatico del solito e boh se mi avete chiesto qualcosa e non vi ho risposto per favore chiedetemela di nuovo.