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Una felpa blu e come sentirsi improvvisamente a casa

La mia felpa blu della Fruit of the loom, una lunga storia insieme

Ho scritto un sacco di post sulla maratona di New York (l’arrivo, e sei cartoline: 1 2 3 4 5 6) ma non ho parlato da nessuna parte della mia felpa blu.

Era più o meno la fine degli anni Ottanta, via Venini era ancora una via bruttina della grigia periferia milanese, forse aveva appena aperto l’osteria pugliese – che io considero in qualche modo l’avanguardia dell’offerta internazionale e multiregionale di cucina della città di Milano come la conosciamo oggi. In via Venini c’era un negozio, International Shop, che era il punto di riferimento per chi cercava jeans e t-shirt. So che fa ridere pensarlo oggi che tra e-commerce e diffusione globale dei brand tutto si trova ovunque, ma appunto 30 anni fa un certo tipo di abbigliamento, certe marche, erano fuori dai circuiti di massa.

International Shop era forse negli anni Ottanta quello che oggi è Urban Outfitters, a grandi linee.

Io lo frequentavo spesso perché mi piacevano i jeans, i giubbotti di jeans, le t-shirt senza troppe scritte e le felpe. Mi piaceva Fruit of the loom, in un modo simile a quanto per un certo periodo mi è piaciuto poi Gap o a quanto mi piace oggi Uniqlo.

International Shop esiste ancora oggi, quel tratto di via Venini è al centro di Nolo, a Milano ci sono migliaia di ristoranti etnici e regionali, e io ho ancora la mia felpa blu di Fruit of the loom, che ho comprato proprio lì.

Quella felpa me la sono messa migliaia di volte, l’ho lavata altrettante, è stata nella scatola “maglioni di lana e di cotone” di tutti i miei traslochi, la ricordo e la vedo da sempre in tutti i miei armadi.

Poi a un certo punto non mi è più piaciuto il blu, solo nero, tutto nero, sempre nero, poi a un certo punto non mi sono più piaciute quelle forme e quelle consistenze, solo maglioni di lana, stretti, lana, merino, solo lana. Si cambia, soprattutto: si invecchia.

E quindi è diventata una felpa da casa, da quando fa freddo d’inverno, delle giornate sul divano a leggere.

E quindi altre scatole “pigiami e mutande” e quindi altri cassetti dentro gli armadi.

Poi è arrivata la maratona, bisognava portarsi qualcosa da indossare al gelo dell’alba di New York e da buttare poi prima della partenza. Così la mia felpa blu col cappuccio è partita con me in quello che doveva essere il suo ultimo trasloco. La mattina della maratona sono uscito alle 5:30, un misto di pessimo umore e massima eccitazione, sono stato almeno due ore chiuso lì dentro, dietro una zip e sotto quel cappuccio. Poi a un certo punto si trattava di consegnare la sacca con gli oggetti personali che si volevano poi ritrovare all’arrivo e non avevo più tanto freddo, quindi mi sono tolto la felpa e l’ho messa nella sacca invece di buttarla prima della partenza.

Ho corso, ho vissuto una giornata incredibile per me e sono arrivato a Central Park. Dopo l’arrivo ho girato per quei vialetti pieni di gente euforica, di gente che stava male, un misto di mele e medaglie, lettighe e abbracci. Ho camminato 20 minuti per arrivare a riprendere la sacca con le mie cose, non vedevo l’ora di tornare in albergo per abbracciare Quell’Altro, c’erano così tanti presagi su quella corsa e così tanti significati dentro i significati che avevo solo voglia di mettere la parola fine a tutto.

Ho aperto la sacca, mi sono seduto per terra, i primi brividi per il freddo, nel Parco l’umidità era altissima, pioveva, iniziava a fare buio. Ho aperto la sacca e ho visto la felpa blu di Fruit of the loom, della quale mi ero dimenticato. Ho aperto la sacca e mi sono ritrovato a casa.

Mi ci sono chiuso dentro e sono andato barcollando a cercare la metropolitana.