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Era mio padre, erano le sue valigie


Milano, 1965: Gustavo e marmaz

Davvero buffo come le circostanze ti portino indietro nel tempo di 30 anni e a ricordare cose che forse non avevi mai capito. I ricordi di mio padre sono quasi tutti legati al viaggio: era sempre in giro, spesso mi portava con sé, se penso a lui mi vengono in mente prima i suoi alberghi e poi casa nostra. E le sue valigie. Sparse ovunque. Quando è morto ne ho trovate nel suo appartamento, in macchina, in ufficio, nel residence di Roma. Tutte mezze piene, tutte comunque utilizzabili subito per partire. Che era un po’ il suo modo di vivere.
Mi è capitato di recente di fare molto valigie, di girare con molte borse, di vivere quella sensazione di precarietà: ho pensato spesso a lui, perché mi sono trovato ad assomigliargli come forse mai prima.

La somiglianza è una cosa strana. Io credevo di aver preso solo la sua voce. Credevo perché così mi avevano detto: i primi tempi quando parlavo con qualcuno al telefono o di persona, mi guardava sempre con uno sguardo pieno di stupore e tenerezza – “Marco, scusa, ma mi sembra di sentire tuo padre”. Era una somiglianza che però ci teneva lontani: io la mia voce non la sentivo. Lontani come siamo spesso stati: mai capito e condiviso quel suo modo di vivere, mai capito e condiviso la sua leggerezza, mai capito e condiviso il suo modello di vita, che poi era pieno di improvvisazioni quotidiane. Così litigavamo o, meglio, io ci provavo a litigare: lui ascoltava, non diceva quasi mai nulla. Incassava e ripartiva. Forse riteneva che non avrei potuto capire. Troppo complicato cercare di spiegare a chi non lo sta vivendo che cos’è quella cosa che non ti fa sentire mai a casa. Se poi ha vent’anni e crede di sapere tutto della vita e del mondo, non ne parliamo nemmeno.

Eh, adesso mi piacerebbe che mi raccontasse. Adesso mi piacerebbe capire.

Ho qui davanti i suoi diari, li ho appena tirati fuori da una valigia, un giorno di questi mi prendo il tempo e lo spirito per leggerli.