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Perdersi è un’arte

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A sinistra Nibionno, a destra Barzago.

Perdersi è una questione di talento. Io per esempio: sono nato con questa capacità e poi l’ho coltivata.

Perdersi per me è internet, è sempre stato così: l’ipertesto, quella cosa lì da cliccare, è una porta aperta sull’inizio di un viaggio, sai da dove parti ma non se e quando e dove arrivi.

Perdersi sono i romanzi, che ci entri da lettore e ne esci come protagonista, come un pezzo della storia. Ma anche i saggi: da mesi sto leggendo libri sulla storia di Milano, dopo tre righe ho bisogno di un computer e di una mappa, cerco il nome di una strada e poi addio, chi ci torna più al punto di partenza?

Il primo giorno a Marrakech sono uscito con la guida e una cartina della medina. Non sono riuscito ad andare da nessuna parte. Il secondo giorno ho mollato tutto e mi sono perso: finalmente ho scoperto la città.

Insomma, è una cosa che mi riesce bene.

Il mio capolavoro, però, è quando mi preparo per i giri in bicicletta: mi segno su un foglio i passaggi fondamentali dell’itinerario (un roadbook sintetico), poi ho il Garmin con la mappa e il Gps e l’itinerario medesimo, poi ho il cellulare con le mappe, poi arrivo davanti a un cartello dove a sinistra è indicata una località sconosciuta e a destra, invece, proprio il nome del prossimo paese che devo attraversare. Io giro a sinistra.

Perdersi è un’arte.