La Val Viola è sempre stata nel nostro destino di novelli camminatori della montagna, fin da quella volta che abbiamo pensato di essere in Val Viola – oh, ma che bella, ah ma che selvaggia – e in realtà eravamo in una, graziosa, valletta laterale che non c’entrava assolutamente nulla. Quel pomeriggio sul tardi ci siamo andati lo stesso, nella Val-Viola-Vera, e ci siamo trovati davanti a un fiume di gente, passeggini, biciclette, zaini, altri passeggini, forse anche trolley, come se stessimo andando in direzione stadio al termine di una partita di calcio.
Questo per dire che, sì, la Val Viola è stupenda ma troppo affollata per i nostri gusti. Ci siamo tornati altre volte, in bicicletta, e abbiamo raggiunto il passo Val Viola dove c’è il confine con la Svizzera. Passerei ore in questi luoghi, ce ne sono ovviamente tantissimi su tutte le Alpi, dove puoi stare con il culo in Italia e le gambe in Svizzera, ciao ciao, perché ti serve per dare un senso ai confini, ti conferma che non hanno un senso in realtà.
Benvenuto in Svizzera, dice Vodafone mentre stai salendo verso il passo.
L’anno scorso ci è capitata l’occasione di andare in Val Viola a maggio. Una giornata fresca e luminosa, i parcheggi deserti, anche il primo, quello più vicino all’imbocco del sentieri. C’erano un camper e un’automobile, basta. Quel giorno, finalmente, abbiamo visto la Val Viola: che bella, che spazi, che silenzi. Il rifugio Viola laggiù, un parallelepipedo rosa – ma sul colore si potrebbe discutere.
– Andiamo fino al passo?
Indossavo la mia nuova bandana da montagna azzurra con le stelle alpine bianche e gialle, dovevo inaugurarla come si deve.
Siamo saliti fino al passo. Il sentiero non è particolarmente difficile o lungo, ma è scomodissimo: la traccia è dissestata, è pieno di gradoni o di sassi, si fa fatica a camminare.
Una volta in cima abbiamo fatto un giretto in Svizzera e ci siamo detti, come ogni volta, che prima o poi saremmo dovuti scendere dall’altra parte dove ci sono un paio di itinerari bellissimi. Italia, Svizzera, Italia.
È stato in quel momento che è arrivato il falco. Gli artigli sul braccio, una morsa rapidissima, ma potente. Ho fatto appena in tempo a girarmi e l’ho visto solo con la coda dell’occhio, ho visto la sua ala azzurra e poi in un attimo non c’era più.
– Che cos’hai?
– Eh, non l’hai visto?
– Visto che cosa?
– C’era un uccello, il braccio
– Dai, è la tua suggestione, è che adesso vedi gipeti ovunque
Il gipeto è un avvoltoio tipico di quella zona ed effettivamente mi piacerebbe vederne uno da vicino. Ma quello non era un gipeto. Era un falco. Azzurro.
Il braccio era indolenzito ma non mi faceva male. In maggio fa buio abbastanza presto, torniamo dai. Peccato non averlo visto bene, quel falco, chissà se aveva il becco giallo.
Qualche mese prima di quel giorno, all’inizio della malattia e prima ancora di sapere che fosse una malattia e quale malattia fosse, mi capitava di sentire spesso delle scosse alla gamba sinistra. Proprio come se ci passasse della corrente, improvvisamente. Belle forti, finivano subito e restava solo un senso di indolenzimento.
Mentre scendevano dal passo e guardavamo la Val Viola da un’altra prospettiva con il vento alle spalle, mi è passato davanti al naso un lembo della mia bandana, azzurro. Come le ali di quel falco.
Questa è la storia di una scossa al braccio e di come la mia mente l’ha trasformata nell’incontro con un rapace azzurro. La montagna è la cura, il luogo dove il dolore diventa un momento di magia, intimo e irripetibile.