Mi ricordo, qualche giorno fa, sono stato bene. Sono uscito dall’ufficio per fare due passi, e appena fuori dal portone ho pensato: oh, mi sento bene. È durato poco, quel momento, ma non è stato l’unico momento: non sto bene e non sto nemmeno male. Non saprei nemmeno dire esattamente come sto.
È passato quasi un anno dalla diagnosi di sclerosi multipla e spesso mi chiedi “come stai?”. Se ti rispondo in modo vago è perché in realtà avrei bisogno di un paio d’ore per raccontarti bene.
Dopo la prima scoperta della malattia, in aprile, alla quale è poi seguita la conferma di sclerosi multipla, ho passato una fase iniziale quasi di euforia: ne ho scritto, ne ho parlato tanto, ho risposto a tante domande. Tutto apparentemente facile, e poi certo: sono forte, ho lo spirito giusto, andrà tutto bene. Bè, forse no. Forse non sono così forte, forse lo spirito andrà ricostruito e chissà come andrà.
Maggio
All’inizio di maggio ho avuto l’infelice idea di farmi operare alla prostata, pensando di risolvere un fastidio e di poter poi affrontare il resto con più leggerezza. In realtà è stato un altro ricovero in ospedale, altri buchi, siringhe, controlli, un decorso operatorio molto migliorabile – tra cateteri che non funzionavano e il ritorno a casa troppo frettoloso. Insomma, non bene. Quando si dice pretendere troppo da se stessi: ecco, quella è stata un’operazione da manuale.
Poi ho iniziato la cura proposta dal centro specializzato in sclerosi multipla al quale mi ero affidato. Una pastiglia al giorno, facile.
I primi giorni tutto OK, poi è arrivata una leggera nausea, che è diventata sempre più forte per trasformarsi infine in questa routine: tutta la mattina restavo a casa a vomitare, il pomeriggio cercavo di rimettermi in piedi per uscire o anche solo per lavorare. Maggio dello scorso anno è stato proprio un mese brutto perché a questi effetti collaterali si è aggiunta una fatica totale e un lento, ma nemmeno troppo, scivolare dentro un pozzo buio, fatto di tanti incubi durante i dormiveglia, che poi restavamo anche al risveglio e di giorno, con la luce. Un pozzo pieno di ogni paura, di avere qualche malattia perfino più grave, di avere poco tempo o addirittura di non averne più.
Il futuro è sempre stato il mio rifugio preferito. Quando mi è capitato di non stare bene, di essere triste, di avere preoccupazioni, sono sempre scappato lì, nel futuro: in quello che succederà, domani andrà meglio, un viaggio che faremo, domani passerà. Nel passato ci sono tanti ricordi scintillanti, che mi fanno felice quando va tutto bene, ma nel futuro ci sono tutte le cure. Ecco, quel mio rifugio semplicemente non c’era più. A maggio non riuscivo più a pensare a domani o a dopodomani, era tutto nero, solo nero.
New York, New York
Appena ricevuta la diagnosi avevamo deciso di fare un viaggio, di tornare finalmente a New York dopo la pandemia. Biglietti per il 1° giugno. Il sabato precedente eravamo in montagna, io non mi sentivo bene e abbiamo deciso di fare solo una passeggiata in paese, senza escursioni. A metà di quella camminata ci siamo dovuti fermare perché non ce la facevo più ad andare avanti: una parte di me si voleva arrendere all’idea che sarebbe stato meglio rimandare il viaggio, un’altra continuava a pensare che in futuro – eh!, poi magari sarei stato anche peggio. Seduti su quella panchina, forse il momento più brutto di questi mesi.
Poi invece siamo partiti e a New York è andato tutto bene, siamo riusciti a fare quello che volevamo, stando solo attenti a stancarci un pochino meno del solito – un Uber in più e 150 strade a piedi in meno.
La città mi ha fatto stare meglio, forse un’iniezione di adrenalina senza fare un’iniezione, gli incubi si sono diradati, ho messo la testa fuori dal pozzo. Ho anche deciso di sospendere la cura che avevo iniziato e di affidarmi a un altro centro specializzato in sclerosi multipla, al Policlinico di Milano. Mi sono trovato molto bene, anche dal punto di vista umano.
Luglio e l’Alta Valtellina
In luglio ho fatto qualche giorno di day hospital al mattino presto per una serie di infusioni di cortisone: nei corridoi di questo vecchio padiglione ospedaliero tante stanzette e tante persone già alle 7, tutte attaccate alle flebo e impegnate tra computer e tablet, molto milanese. Mi ha fatto sorridere e sentire meno solo, anche se non ho parlato con nessuno. Sia mai diventare socievoli.
Prima, durante e dopo: tanta montagna. Tante escursioni, tanti scorci che sono stati davvero un sollievo, Quell’Altro sempre qualche passo avanti, tanto che non ho nemmeno una foto di un panorama nella quale non ci sia anche lui. E questo vorrà pur dire qualcosa, e anche più di qualcosa.
Poi ho iniziato una nuova cura, sempre in pastiglie, e questa, per il momento, non mi sta dando fastidio: siamo ormai al settimo mese e incrocio le dita, poi se mi sta anche facendo bene o se servirà davvero lo scopriremo nei prossimi anni.
Autunno e le bici
Dopo l’estate, l’autunno è andato così così. La sensazione costante di non stare bene, i sintomi che mi sembravano peggiorare, la fatica, l’impossibilità di pensare ai mesi successivi. In più di un giorno si è proprio spenta la luce.
Una sera, andavo non so dove in bicicletta, sono arrivato in cima alla salita dei bastioni di Porta Venezia come se avessi scalato il Mortirolo: stanchissimo per quei pochi metri, male alle gambe, una gran voglia di piangere. Lo segno come un momento di svolta: certe cose non saranno più come prima e, adesso che è passata qualche settimana, credo dovrò fare i conti con questa questione della bici. Ho in casa e sempre sotto gli occhi biciclette che non userò mai più, che non sto usando da tempo: le ho sempre guardate pensando al prossimo giro che prima o poi avrei fatto, adesso le guardo pensando al prossimo giro che non potrò più fare. Le darò via. La mia scatto fisso è stata la bici che mi ha regalato la consapevolezza di poter cambiare il mondo pedalando proprio da lì e la mia bici da corsa azzurra è stata la compagna insostituibile della scoperta del mondo, e in particolare delle montagne. Guardiamo avanti.
«Non la trovo male»
Alla visita di controllo in dicembre la dottoressa non mi ha trovato male, o comunque non peggio, e la risonanza era uguale alla precedente. Quadro neuroradiologico stabile è improvvisamente la strofa della mia canzone preferita. «Dobbiamo imparare a conoscerla per capire bene come vanno le cose», mi ha detto. Ha ragione, anch’io devo imparare a conoscere questa persona nuova.
Adesso che siamo a febbraio, sto imparando a convivere con tutti i miei sintomi: la perdita di sensibilità alle dita, la debolezza, il fastidio a una gamba che ogni tanto quasi zoppico, tremori, scosse, la fatica. Non tutti insieme, a gruppi di due o tre, non tutto il giorno e tutti i giorni, ma spesso e volentieri. Sempre senza preavviso.
La fatica non la posso raccontare, non ne sono capace. Nulla che si possa comprendere, credo, se non la si è provata. Parlandone con altre persone malate ne ho avuto conferma: la capiamo solo noi, è come un codice segreto, un linguaggio per una piccola comunità. La fatica e la stanchezza peggiorano esponenzialmente con il caldo. Sappiamo che estate è stata quella del 2022, immaginiamo che estati saranno le prossime. Devo pensare che per stare meglio non potrò subire quel caldo costante sempre.
Un nuovo rifugio in montagna
Siamo a febbraio e sto ricostruendo quel rifugio del futuro. Non è ancora il posto sicuro dove andavo, è come una baita di ristrutturare: ci sono i sassi, che sono solidi, ma manca il tetto e le travi di legno sono da cambiare. Ogni tanto provo a entrarci, vedere che effetto mi fa. Meglio di maggio.
Mi sto convincendo che la montagna è una risposta, forse anche una cura. Tra poco è primavera.