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Imparare a stare meglio, che fatica

La montagna è la cura, il racconto è la cura. Raccontare come stai per imparare a stare meglio. OK, riparto da qui.

Come stai? Male. I mesi di questi mesi di questo anno molto male.

Pensavo di aver imparato a essere malato – su dai forza sono già passati 3 anni dalla diagnosi, hai detto, fatto, ridetto. Ti stai curando. Stai abbastanza bene, le risonanze sono stabili, non ci sono nuove lesioni. Hai anche recuperato la tua leggerezza di sempre.

– potresti andare a Zelig

così mi hanno detto dopo un brevissimo intervento a un convegno sulla sclerosi multipla. Mi ha fatto ripensare a una frase che mi sono sentito dire tante volte, quando ero giovane: “mi piaci perché mi fai ridere“. Non mi è mai sembrato un gran complimento, lo ammetto. Ma forse lo era.

Potrei andare a Zelig, eppure anche quel giorno stavo male, proprio male. Non nel senso di un braccio, della stanchezza, dei crampi o delle scosse, ma nel senso di imparare a vivere con una malattia così, fare il bravo paziente seguendo le indicazioni dei medici, curarsi. Lo stavo facendo bene, benino, almeno credo, però poi è successo qualcosa.

In una malattia c’è questo tema, curioso, del curarsi, della biologia – o come si chiama, delle pillole e delle risonanza, ma c’è anche, a volte soprattutto, l’imparare a essere malato. Le questioni pratiche (come si prenota una visita, come si incastrano le prenotazioni tra consulti, esami di laboratorio, diagnostica, altri consulti – il tutto dentro un sistema sanitario, sempre sia lodato, che “apre le agende” – e quando aprono? chissà!, che ti dà appuntamento tra un anno, ma le ricette durano 6 mesi, eh ma basta prenotare subito, però non ci sono le agende, eccetera eccetera) e le questioni psicologiche, vogliamo chiamarle così? Così ti muovi tra un incrocio di telefonate, email, form, page-not-found, “le consigliamo Dalmine per la risonanza” (via Dalmine, ah no proprio Dalmine vicino a Bergamo, ah ecco), e quel macigno dell’incertezza, come starò domani, e tra 2 anni, ma anche mi reggerà la gamba al prossimo passo? Per mesi l’ho pensato a ogni passo. Assorto nei miei pensieri, se si possono chiamare così.

Per esempio mi piacerebbe provare a correre di nuovo. Non è che sia mai stato né un patito né un fenomeno, però mi è sempre piaciuto tanto, la maratona è stata una delle esperienze più belle della mia vita, ancora mi vengono i brividi se ci penso, e la prima cosa che ho fatto dopo il lockdown del 2020 è stata proprio una corsa; sveglia alle 5 del mattino e via a riconquistare Milano, c’è solo la strada dice una canzone che ha sempre significato tanto per me. Vorrei provare a correre, ma ho paura di inciampare. Ci proverò, prima o poi, anche questa è una cosa che si impara, a superare alcune paure – e poi magari cadrò, ma amen.

Comunque, insomma: pensavo che tutto sommato stavo imparando. A essere malato, con tutto quello che significa. E che significa di più quando la malattia è imprevedibile e si può manifestare in tanti modi e luoghi, luoghi di te, diversi.

Di giorni perduti a rincorrere il vento. Val di Rosole, ai piedi del Cevedale, agosto 2025.

Poi un giorno è arrivata un’email: “Caro Marco, ho bisogno di morire”. La mandava Laura Santi, giornalista, segretaria dell’associazione Luca Coscioni e malata di sclerosi multipla. Raccontava dei suoi peggioramenti, del suo dolore e della sua stanchezza, dei ricorsi per avere il diritto di accedere al suicidio assistito, dell’opzione Svizzera già prenotata.

Dopo quell’email ho cercato di conoscere meglio Laura e ho trovato un servizio andato in onda su La7: l’aveva realizzato la sua amica Francesca Mannocchi, giornalista, malata di sclerosi multipla. Quel servizio mi ha messo KO già al primo minuto, “che bella la neve”, e quando sono arrivato in fondo i tre anni di lavoro sulla mia testolina erano spariti in un attimo, puff. Cominciamo tutto da zero, tutto dal momento del primo referto, tutto da quel “il reperto più rilevante è costituito da due zone di alterato segnale” eccetera. La medicina è splendida, sa dare nomi alle cose che sembrano nulla. Alterato segnale, che vuoi che sia.

Ho sempre pensato che il suicidio assistito fosse un diritto delle persone, mi chiedo ancora perché ne dobbiamo parlare, mi chiedo, come sempre, che diritto toglie agli altri e quindi perché altri sono contrari. (Nelle grandi battaglie contro i diritti delle persone c’è sempre la Chiesa in prima linea, e anche le battaglie che abbiamo vinto, come l’aborto, le abbiamo poi perse – vedi numero di medici obiettori e come rendiamo difficile la vita alle donne che fanno una scelta. Contro il divorzio, contro i matrimoni per le persone omosessuali, contro qualsiasicosa per le persone transessuali, eccetera. Contro il suicidio assistito, anche, e c’è lo zampino della Chiesa nella pessima, pessima, pessima proposta di Legge che sarà discussa alla Camera).

Chiusa questa parentesi, dicevo, sono sempre stato a favore dei diritti e quindi anche del suicidio assistito; poi un giorno ho realizzato che tante persone che sceglievano di andare a morire in Svizzera avevano la mia stessa malattia, e allora: “oh cavolo”.

Le persone che ricorrevano, o volevano ricorrere, al suicidio assistito nel mio immaginario soffrivano solo di patologie rarissime, di una combinazione di patologie rarissime, oppure di tumori al 12° stadio – cose che non mi possono riguardare, figurati. Ovviamente non è così. E non lo è soprattutto per tante malattie neurodegenerative, come la mia, che ti tolgono ogni giorno qualcosa e poi alla fine non resta quasi nulla di te, se non dolore, fisico e psicologico, e una totale dipendenza dagli altri. 

Quindi “oh cavolo”, la cosa mi riguarda proprio da vicino.

In quel servizio, splendido, di Francesca Mannocchi, Laura Santi ci spiega, con la sua vita – quella di ieri e quella di oggi, il perché. Basta guardarlo, poi si capisce tutto.

Si capisce anche, ed è quello che mi ha steso – e ho dovuto camminare decine di chilometri di pietraie e parecchi tremila metri per superarlo, chissà se l’ho superato, che la sua stanchezza e il suo dolore sono intrecciati, legati in modo indissolubile alle relazioni della sua vita, a suo marito soprattutto. E qui non capisci quanto, in fondo in fondo, la scelta di morire non sia anche la scelta di libertà, lasciare libera la persona che ami così tanto. Quella persona che si prende cura di te, ma in salute e in malattia è solo una formula, quando la malattia ti porta laggiù, in fondo, prendersi cura chissà che cosa diventa. Io li vedo gli abbracci tra Laura e Stefano e lo vedo che sono solo in parte amore, sono molto più spesso assistenza. E Laura lo dice quando parla della stanchezza di avere continuamente le mani delle persone addosso, anche quelle di suo marito che poi forse in qualche momento non è nemmeno più suo marito, è un assistente sanitario.

Chissà quanto di quel dolore, di quella voglia di farla finita non è anche la voglia di rendere liberi tutti quelli che adesso costringi in una prigionia, in carcere insieme a te. Ma poi non voglio dire di Laura, della quale so così poco: dico di me, di quello che ho pensato nell’ascoltare la sua storia. Penso alla voglia di rimanere sempre attaccato alla vita (che bella la neve, appunto) e alla consapevolezza che a un certo punto quella non è più vita, per te e per gli altri. È diventata un’altra cosa e devi capire quando, da quando, non ce la fai più. Una decisione devastante, impossibile, così mi sembra.

In aggiunta: il senso di colpa. Sono stato così male anche perché mi sentivo in colpa di stare così bene, almeno in confronto a Laura.

Laura oggi non c’è più, ha ottenuto, dopo aver lottato tanto, l’abbiamo costretta anche a lottare per questo, di accedere al suicidio assistito qui in Italia, nella sua casa. Almeno non è dovuta andare in Svizzera.

Io mi dico che c’è la malattia e c’è l’essere malati. A volte la malattia va bene, o benino, ma l’essere malati è una catastrofe. Questi mesi sono stati così. Poi sono arrivate quelle giornate piene di sole in montagna dove hai solo voglia di salire, salire e salire ancora, il caldo e l’aria fresca addosso, nessuno in giro, Quell’Altro là davanti.

Alla fine dell’estate siamo andati in una piccola valle dove non eravamo mai stati, di quelle che piacciono a noi: ben sopra i 2000 metri, pietraie e ghiacciai attorno, piccole pianticelle basse e resistenti al vento, molto vento, tutto molto apro e poco bucolico. Ecco, quel giorno ho iniziato a stare meglio. Forse perché ho capito che questi sono stati mesi dolorosi, ma necessari. Grazie Laura. 

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